di Maria Grazia Mancini *
Funzionava più o meno così. Il tempo scorreva lento e fin troppo pieno, e a fine giornata erano migliaia le vite che avevamo vissuto. Come una bimba che si affaccia per la prima volta alla finestra del mondo, tutto sembrava raccontarmi di sé. Tutto, dall'albero di Jack's Fruit agli occhi di qualcuno incontrato per strada o al Benedict Medical Centre. Meraviglia, in una sola parola. Meraviglia e terrore di avere - dentro - troppo poco spazio per accogliere tutto. Per metterci immagini, odori, colori, suoni, voci; cose incomprensibili e cose pienamente convissute; da poter ricordare, poter ridare al mio cuore, ancora una volta. Sensazioni conosciute, eppure assaporate come fosse per la prima volta. A re-imparare qualcosa che, con i miei occhi e le mie categorie, avevo già incrociato.
"Case" che sono case, "negozi" che sono negozi: identico il concetto. Eppure, diversa - estremamente diversa - la forma. A comprendere la sostanza vera dentro un'idea. Perché non è detto che un negozio debba necessariamente essere una stanza dove qualcuno vende qualcosa. Cosa succede, infatti, quando la merce è esposta su quattro assi messe in croce che si affacciano direttamente sulla strada? O quando al posto delle bancarelle, nei mercati, ci sono lenzuola bianche stese per terra per accogliere la frutta esposta? Già: a leggerci dentro, il senso di "negozio" o "mercato" è comunque tutto lì, intatto. E se il "taxi" si chiamasse boda-boda e fosse una moto o una bicicletta? O il "pullman di città" fosse un furgoncino (matato) con dentro molti sedili, persino comodi, anche se stretti in poco spazio? Sono i dettagli che compongono le differenze, anche quelle macroscopiche. E poi piccoli supermercati e i distributori di benzina e i tanti negozi di telefonia. Bombardata sui canali tv da una pubblicità che ostenta necessità occidentali, qui molta gente possiede il cellulare ed è iscritta a Facebook anche se, spesso, vive in una baracca e, qualche volta, salta i pasti. È un paese che non ha ammortizzato il divenire della tecnologia: ne ha visto direttamente e di colpo i risultati preconfezionati. E ha bisogno di possederli.
Poi, d'un tratto, con queste premesse, ti capita di entrare nel centro città; ed è come essere in una capitale europea. Kampala è anche questo. Hotel tappezzati di soldi… e banche. Innumerevoli banche. E centri commerciali. E poi, su un negozio "alla occidentale", una scritta: "From Farm to Fashion". E noi lì, incredule e imbambolate, a osservare. È uomo, nelle contraddizioni proprie del suo divenire. Anzi per la precisione l'Africa che ho conosciuto io è donna. Una donna che cammina verso il suo orizzonte illimitato; passeggia lungo strade affollate di piedi e boda-boda molto più che di macchine; con una brocca enorme in equilibrio sulla testa; dal villaggio verso il pozzo, lungo strade senza asfalto: solo terra rossa, faticosa ma accogliente [sì, accogliente: ci lasci l'impronta, quando passi; se ti volti indietro un attimo la vedi, traccia di te]; a camminarci a piedi nudi: nell'aria c'è una strana forma di allergia alle scarpe, qui.
È donna che lotta e che cresce. Odia la pietà, donna Africa. Forse non ne conosce neanche il significato; ti accoglie; e ti dà tutta se stessa. Ti offre ombra se c'è troppo sole e una tazza di tè per dissetarti. Non si ha pietà di una giovane donna che lotta per costruire se stessa. Non si deve avere pietà di un'Africa che si costruisce con fatica. Che ci fanno un padre missionario o un medico italiano o un volontario, qui? No, non è per “imporre un'altra cultura” o per “insegnare la civiltà a dei primitivi”; non è per questo che si viene in Africa. È per fare da sponda a un processo di crescita, per cooperare. Qui si lavora sulle piccole storie, su quella di O'Pio, Angelo, Emmanuel, Zelinda, Nicoletta, Gilda, Pauline. Si impara a conoscere i loro sogni grandi e forti e si lotta perché possano diventare realtà. Così è. Almeno at Father John's Place. È una famiglia in cui ciascuno ha la sua parte e fa sì che anche il più piccolo abbia la sua; succede nella vita di tutti i giorni come a tavola, quando ciascuno prende la propria porzione valutando che non sia eccessiva, perché ce ne sia per tutti, né troppo scarsa, perché deve saziarti! “I care”: la prima cosa che si insegna ai bambini e ai ragazzi tra i banchi di scuola; in edifici – quelli che ospitano scuole, collegi, chiese - costruiti da uomini africani, guidati dal capocantiere e dall'elettricista della missione.
È donna senza padre che cerca se stessa, l’Africa. A volte la vedi persa, dentro occhi scuri scuri che sono storie incurabili, voragini incolmabili. Altre volte sembra una roccia, dentro occhi ostinati di ragazzi che vogliono vedere il mondo, pronti a partire per posti che non sanno immaginare, col dolore di chi non vorrebbe, ma sente di doverlo fare. Per imparare e per poi tornare a casa. Ritornare… Cooperare è lavorare sulle loro storie: piccole storie di tante piccole persone che, un giorno, guideranno questo popolo. I figli di donna Africa che sono la sua forza.
No, non sono stati propriamente di "volontariato", i miei venti giorni in Africa. Sono stata un'allieva. Ho imparato da persone con una voglia dirompente di trasmettere l'ars medica. Medici giovani o primari o ostetriche o infermieri che fossero. Spinti da quell'esigenza di contribuire alla costruzione di persone "esperte"; esigenza propria di chi sa ancora "a cosa serve studiare medicina". E noi, dall'altra parte, che lo dimentichiamo per distrazione nostra o perché, nella generazione che ci precede, troppo spesso manca la consapevolezza della responsabilità che grava sulle sue spalle. Sono stata studentessa di lezioni fatte di domande e contatto. Contatto con pazienti, con medici, con studenti più grandi; con la stanchezza di una giornata interminabile senza pranzo e la soddisfazione di sentire di aver imparato qualcosa. Quanto meno a cosa - o a chi - serve davvero un medico. «Perché imparare è esperienza; tutto il resto è informazione».
21 anni, iscritta al quarto anno di Medicina, sede di Roma - Collegio San Luca-Barelli