di Davide Vincenzo Catania *
L’Africa è come le sue donne che camminano per chilometri sul ciglio di una strada a malapena asfaltata con le macchine che sfrecciano a lato, accarezzando delicatamente con i propri piedi nudi quella terra rossa d’argilla, indossando con eleganza il proprio abito che avvolge sulla schiena un bimbo di qualche mese, che dorme cullato dal ritmo cadenzato di quella marcia, mentre sulla loro testa si regge in un perfetto equilibrio una tanica gialla colma d’acqua. Questa è l’immagine che si figura nella mia mente quando ricordo l’Africa, un mondo complesso e arduo da capire, infinito per colori, tradizioni, culture, abitudini, ma una terra che ha voglia di reagire, che come le sue donne non ha paura di quanta strada dovrà percorrere a piedi, lentamente, mentre il nostro mondo corre veloce lungo una strada asfaltata. Non teme il peso della fatica del lavoro né i sacrifici che dovrà affrontare, ma orgoglioso e desideroso di riscatto guarda avanti senza timore vedendo la strada e misurando la lunghezza dei propri passi. Un popolo che custodisce e protegge i propri figli, come una madre affettuosa, investendo con fiducia su di essi e pronto a qualsiasi sacrificio per permettere loro un futuro migliore.
Questa è l’Africa che ho conosciuto e vissuto, l’Africa di Luzira, un quartiere della capitale Kampala, dove dalla missione di padre John Scalabrini si dirama un mondo di iniziative e attività volte alla rivalutazione della regione africana. Attraverso la scuola, i dormitori e l’ospedale la missione si rivela uno straordinario connubio tra opportunità e servizi per colmare l’enorme vuoto lasciato dal potere pubblico, che svela il vero problema africano, cioè la mancanza di istituzioni governativa che sappiano offrire servizi adeguati ai propri cittadini, lasciandoli così alla mercé di privati che spesso esigono costi eccessivi, non sostenibili dalle singole famiglie.
Un paese “where the streets have no name” perché esistono solo distretti e per cercare qualcuno ti basta conoscere il suo nome, perché le persone che vivono lì si sentono parte di una stessa famiglia e come i suoi membri si conoscono, si aiutano in un clima di vera solidarietà. Un paese dove le strade non hanno bisogno di nomi, perché la vita si vive lungo la strada, i cui bordi straripano di mercati dove spesso le botteghe sono anche case e le persone vivono ancora una dimensione sociale collettiva, e se hai bisogno di aiuto è sufficiente chiedere troverai sempre un vicino pronto a darti una mano.
Ho vissuto l’ospedale da medico, non più da semplice studente, e per la prima volta ho provato il senso di responsabilità che comporta dover prendere decisioni, e nella nostra esperienza è capitato anche in occasione di situazioni critiche e di emergenza. Ho vissuto una medicina “totale”, ben lontana da quelle dei paesi sviluppati dove predomina l’ultraspecializzazione e la cultura della deresponsabilizzazione. Ho visto giovani medici in grado di trattare qualsiasi paziente, dai casi di traumatizzati sul lavoro ai casi di Aids; ho riscoperto una medicina “fisica” basata sulle percezioni delle proprie mani, dei propri occhi, del proprio naso e non affidata all’esito impersonale di una batteria di esami, una medicina personale che mira non solo a curare ma prima di tutto a prendersi cura di una persona, a conoscerla, a comprendere le ragioni della sua sofferenza e solo dopo prevedere la terapia ideale per il “paziente”.
L’ospedale è un terreno arduo su cui muoversi ed in grado di concentrare storie umane molto difficili: durante il nostro tirocinio ho provato sensazioni molto forti, ho conosciuto e visto vivere persone affette da Aids, giovani madri abbandonate dai mariti, donne che ricorrono a metodi di aborto illegali rischiando la propria vita; tutto ciò non è un semplice accumulo di casi medici da registrare ma sono storie di vita, una vita ancora dura, dove soprattutto le donne non sono tutelate adeguatamente e spesso costrette alla menzogna per non perdere il proprio compagno e trovarsi sole.
Ciò che mi ha segnato più di ogni altra cosa è non aver visto mai un paziente piangere, potevi comunicare loro qualunque informazione “mi dispiace, ma lei ha un cancro incurabile”, oppure dire “lei è siero-positiva”: i pazienti affrontavano l’esperienza della malattia e perfino quella della morte con un profondo senso di sé stessi come capaci di accettare questi eventi in quanto tappe naturali della vita, non con rassegnazione ma con piena consapevolezza, spesso animati da un profondo spirito religioso, che gli conferiva la percezione di sentirsi parte di un disegno più grande, non comprensibile per l’uomo.
Ho lasciato quella terra col desiderio di ritornare, di riprovare quelle esperienze, di sentire di nuovo quelle emozioni così forti e contrastanti, di percepire di nuovo il valore della vita e di come ogni giorno ci si ostini contro tutto a difenderla. È difficile riuscire a comprendere la complessità di quella terra, ancora così lontana dal nostro mondo, dopo aver vissuto per un po’ a contatto con la popolazione africana puoi giungere a due sole conclusioni: puoi odiare quelle persone per le loro contraddizioni, per le guerre intestine che ancora combattono tra loro, per l’abitudine a ricevere sterile elemosina: non si tratta di razzismo ma di incapacità di accettare e vivere quel mondo. Oppure puoi rimanere affascinato dalla cultura, dal loro orgoglio, dagli occhi dei bambini che pur senza giocattoli o vestiti puliti corrono sempre felici, dalla loro forza interiore che li porta a vivere e ad affrontare senza paura qualsiasi esperienza.
* 25 anni, neolaureato in Medicina e chirurgia, sede di Roma – già studente del Collegio Nuovo Joanneum