di Martina Montagna *
Avrei rubato tutto. I volti interrogativi e gli occhi accesi, le mani calde, le voci sottili e i canti colorati la domenica, in chiesa. Strade polverose e un popolo che cammina; cammina presto la mattina per andare a scuola, cammina alla sera tornando dal lavoro, cammina lungo la ferrovia e tra il traffic jam di Kampala – e che traffico! Tutto avrei intrappolato su un foglio di carta o attraverso il filtro di un obiettivo, avrei stretto a me per essere sicura di non perdere il filo. Ma le pagine del mio block notes sono quasi bianche, e le fotografie, ahimè, poco loquaci: come la fermi, la meraviglia semplice di un bambino che ti saluta, immobile e sorridente, dal margine della strada?
Abbandono il mio proposito di documentare e abbasso le armi - la penna, l’obiettivo, la voce, le mie categorie poco allenate – e provo ad ascoltare questa terra che mi chiede di capire, prima che di trattenere. Per non essere una turista allo zoo. “Africa”, per un uomo dell’Occidente, è il segreto intatto di un continente che conserva le radici dell’umanità, il ventre gonfio di un bambino in un servizio Tv, è la promessa di poter fare qualcosa “per aiutare chi ne ha bisogno”.
Pleonastico, ma necessario, dire che “Africa” è tanto diverso da questo. Almeno, il pezzetto che ho incontrato io. Una delle prime cose che penso, appena arrivata, è che trovo difficile distinguere tra di loro questi visi così scuri; un giorno, passeggiando, Pauline mi confida che secondo lei i bianchi si assomigliano tutti. E anche se sono in un altro continente, anche se qui si cammina a piedi nudi e andare a scuola significa davvero avere la possibilità di sognare un po’ più forte, anche se “cena” vuol dire riso e fagioli ogni sera, mi accorgo che sono più vicina a ciò che conosco di quanto pensassi. E per quanto riguarda “aiutare chi ne ha bisogno”...beh, imparo che padre John vive in Uganda da quarant’anni e parla con la gente del posto nella loro lingua. E che chi è qui per “aiutare”, prima di tutto impara ad accogliere le innumerevoli sfumature di un popolo che esce da decenni di guerre civili e stragi indicibili, ma che, misteriosamente, conosce il linguaggio della Bellezza; che ama il tempo di oggi, e lotta per impossessarsi del suo domani.
Così, di tutto quello che ho visto, toccato, ascoltato, ciò che ha cambiato, sottilmente, la mia gravità, sono le persone che ho incontrato in Uganda, e le loro storie. Storie che quasi hai paura a indagare, perché temi di affondare le mani in qualcosa che non ti riguarda. Ma la gente che è qui - perché ci è nata o perché ha scelto di dedicare a questa parte di mondo una parte, grande o piccola, della propria vita - mi precede. Mi chiede di raccontare chi sono io, cosa voglio e cosa vorrò, mi domanda cosa penso della verde Uganda, mi racconta cosa immagina della mia Europa, mi incoraggia a toccare con le mani tutto quello che posso, mi porta dritta dentro la sua quotidianità, piccola e grande, mi accompagna, a volte mi è riconoscente per qualcosa che non ho fatto. Mi chiede di non dimenticare. Nelle giornate che cominciano alle sei del mattino, svegliata dal pulmino vociante di bambini che vanno a scuola, e finiscono con il rosario nel cortile di casa di padre John - sempre alla stessa ora, appuntamento fisso per i tantissimi che allacciano a questa casa la propria infanzia o un pezzo di cuore – in queste giornate, dicevo, c’è sempre tempo e spazio per sedersi e parlare. Con chiunque.
Giorni densi, tempo lentissimo e pieno. Sulle spalle un camice che dopo due giorni è già rosso della terra che colora tutto, qui. Lo indosso mentre un’ostetrica mi spiega come fare a calcolare le settimane di gestazione misurando quante dita entrano nello spazio tra il fondo nell’utero e lo sterno; mi ci stringo dentro guardando gli occhi annegati di un uomo che, a trent’anni, ha appena scoperto di aver contratto il virus dell’Hiv; sono felice di quello che significa questa divisa osservando il modo in cui la dottoressa Grant visita la sua paziente in ambulatorio, il modo in cui fa delle sue mani e della sua testa lo strumento migliore per prendersi cura di lei; noto che è un po’ diverso da quello che indossano gli studenti di Medicina africani. A Daniela, radiologa di Milano che lavora a Kampala da un anno, domando quanto sia pesante il camice che indossa lei, che conosce quanto sarebbe tutto più semplice con una sola angiografia, una sola Tac, un farmaco un po’ più efficace. E un po’ mi risponde, un po’ leggo la risposta nel suo lavoro instancabile e appassionato.
In tre dimensioni e a colori, ecco, finalmente, un po’ del senso che ho continuato a cercare tra le parole troppo fitte di un aggiornatissimo libro di Medicina. Al confine sottile, ma ben demarcato, tra volontariato e professione, nelle mani bianche o nere dei dottori e gli infermieri che mi guidano, poco alla volta scopro di quali ingredienti ho bisogno per essere un medico. E a mani nude tocco la responsabilità di conoscere: una valigetta da dottore, che non è altro che una elegante appendice se non viene aperta, usata, arricchita, amata. Ogni giorno.
“Cammina tante strade, ritorna alla tua casa, e guarda ogni cosa come se fosse la prima volta”, scrive T. S. Eliot. Vivo a Roma e studio medicina, e qui c’è quella che chiamo “casa”. E so che il mondo urla forte anche qui, anche dietro l’angolo, inascoltato. Per ora, ho delle scarpe, un tempo bianche, rosse di terra che non si lava via. E sono quelle con cui cammino ogni giorno.
21 anni, di Putignano (Ba), iscritta al quarto anno di Medicina, sede di Roma – Collegio San Luca-Barelli