Le chiamano “seconde generazioni”, ma il nome non rende loro giustizia. Sono i figli degli immigrati, nati e cresciuti in Italia o arrivati da piccoli nel nostro Paese e molto più integrati di quanto i mass media facciano pensare. Anche per sgombrare il campo dai luoghi comuni, l’Università Cattolica del Sacro Cuore organizza il convegno internazionale “Una generazione competente”, in programma venerdì 13 marzo nella sede di largo Gemelli, che farà il punto sulla situazione a Milano, in Italia e in Francia.

Tra i protagonisti dell’iniziativa, Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba, uno studioso molto attivo anche sul terreno dell’integrazione. «Preferisco chiamarli nuovi italiani – afferma -. Sono persone che si sono costruite un’identità multiculturale, acquisendo la cultura del nostro Paese senza rinunciare alla propria».

Le comunità di quello che in modo generico viene chiamato “mondo arabo” sono meno chiuse e rigide di quanto si possa credere: «La maggioranza silenziosa non finisce sulle pagine dei giornali, che dipingono una realtà distorta». La presenza islamica in Italia, ad esempio, da più parti additata come prologo di un’invasione, sta diminuendo negli ultimi anni a causa della crisi economica.

Ancora più fastidiosa la tendenza a indicare il credo religioso come ostacolo insormontabile all’integrazione: «La religione – afferma Branca - contribuisce all’emarginazione solo se vissuta in modo rivendicativo: ostentare superiorità o arroccarsi sulle proprie visioni può portare al conflitto, ma la maggior parte degli islamici vive le sue mediazioni senza problemi. L’allarme di una presunta islamizzazione dell’Italia è privo di qualsiasi fondamento».

Il problema maggiore è che fomentare lo scontro di civiltà mette in difficoltà i nuovi italiani: è come se si chiedesse loro di scegliere fra l’Islam, che rappresenta il loro background culturale, e i valori delle società occidentali, a cui hanno scelto implicitamente di aderire vivendo qui. Ma le due cose non sono in contraddizione di per sé e anzi, fa notare Branca, il loro incontro può essere molto fecondo. «Il rispetto per i genitori o per i limiti alla libertà di offendere sono valori comuni utili da recuperare anche nella nostra cultura, che invece sdogana sempre di più il politically correct a tutti costi e tende a giustificare la ribellione all’autorità».

Anche perché, come sottolinea Piergiorgio Reggio, coordinatore del master in Competenze interculturali e relatore al convegno, nessun gruppo di immigrati ha difficoltà d’integrazione insite nella propria cultura. «Le criticità dipendono da circostanze contingenti, prima fra tutte la mancanza di lavoro. Penso per esempio ai senegalesi nella bergamasca: l’elevata disoccupazione produce subordinazione sociale e quindi emarginazione».

Piuttosto, la sfida dei prossimi anni sarà quella di inserire i figli degli immigrati nel tessuto sociale dando loro le stesse opportunità di tutti gli altri. «Abbiamo notato che nei percorsi scolastici, gli italiani di seconda generazione non si distribuiscono in maniera uniforme fra le scuole superiori, ma tendono ad incanalarsi verso gli istituti di formazione professionale: in alcuni casi si raggiungono picchi del 70% di iscritti figli di immigrati».

Un tipo d’istruzione validissima, che prepara però gli studenti per professioni esecutive, mentre le cosiddette “professioni intellettuali”, generalmente più prestigiose e meglio retribuite, restano appannaggio di chi ha frequentato licei o istituti tecnici. Una tendenza che fa il paio con le basse percentuali delle iscrizioni universitarie delle seconde generazioni e che rischia di portare a una “ghettizzazione occupazionale” in un futuro prossimo. «Ci sono casi di successo, soprattutto in percorsi accademici scientifici, ma manca ancora una “classe media” di studenti figli di immigrati».