Claudio Lucifora«Al punto in cui siamo la nostra economia per uscire dalla stagnazione e dal rischio di una deflazione prolungata necessita di una cura da cavallo». Non usa mezzi termini Claudio Lucifora (nella foto), docente di Economia del lavoro all’Università Cattolica, da qualche mese alla guida dell’Associazione italiana degli economisti del lavoro (Aiel), costituita nel 1985 per volontà di un gruppo di docenti universitari, tra cui il professore dell’Ateneo da poco uscito di ruolo Carlo Dell'Aringa, con l’obiettivo di promuovere iniziative scientifiche per favorire l’incontro di studiosi interessati ai problemi del lavoro in un’ottica interdisciplinare. Secondo l’economista della Cattolica sono i giovani, con il problema della disoccupazione e delle riforme del mercato del lavoro, una delle priorità cui deve guardare il governo per rilanciare il sistema Italia. Temi che saranno al centro della conferenza annuale dell’Aiel, quest’anno in programma dall’11 al 12 settembre all’Università di Pisa.

«Il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli inaccettabili per un Paese sviluppato come il nostro - osserva Lucifora -. Non c’è dubbio che si debbano prevedere interventi specifici mirati ai giovani, per contrastare la disoccupazione e favorire il loro ingresso nel mercato del lavoro. Potrebbe non essere sbagliata l’idea di concentrare le risorse, finalizzando il taglio del costo del lavoro all’occupazione giovanile. Una misura che, come altre, non è esente da critiche e controindicazioni».

Che cosa pensa del piano “Garanzia per i Giovani”? La “Youth guarantee” consiste in un percorso di accompagnamento dei giovani senza lavoro che entro un periodo ben definito li metta in condizione di ricevere un’offerta di lavoro o un periodo di formazione professionale. Per il sostegno al lavoro giovanile il piano europeo ha messo a disposizione dell'Italia circa 1,5 miliardi, una somma non indifferente viste le magre risorse disponibili per le politiche del lavoro. Trascurando le questioni più squisitamente politiche legate alla possibilità di concentrare le risorse nel prossimo biennio, piuttosto che sull'intera durata del progetto (sette anni), quello che più interessa capire è come le risorse verranno erogate e chi gestirà gli interventi.

Che esito avrà? Per avere successo il programma “Youth guarantee” deve poter contare su una rete di servizi all’impiego in grado di coprire l'intero territorio italiano e capace di attivare una molteplicità di interventi per aumentare l'occupabilità dei giovani. Ma allo stato attuale i centri per l'impiego non sono in grado di svolgere un simile compito. Si tratta di decidere se potenziare questi servizi oppure puntare sul ruolo delle agenzie di intermediazione private. In entrambi i casi, il rischio è che le risorse per l'occupazione giovanile vengano disperse nella riforma dei centri per l'impiego invece che finalizzate a favorire l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.

In questi giorni il tema dell’occupazione è diventato centrale anche per l’approvazione del Jobs Act. Come giudica questo tipo di interventi? Il merito principale del Jobs Act è prevedere una riforma complessiva delle regole che governano il funzionamento del mercato del lavoro, intervenendo su diversi temi: dalla semplificazione normativa, alla revisione degli ammortizzatori sociali, fino alle regole di rappresentanza sindacale. Sebbene i dettagli dei singoli interventi non siano noti, la semplificazione normativa e la riduzione delle tipologie contrattuali, già peraltro ridotte dal Governo Monti, sono sicuramente auspicabili.

Qual è la strada da percorrere? Le diverse forme contrattuali, fatti salvo i classici contratti a termine per lavori stagionali, sostituzioni, ecc., dovrebbero essere inglobate in un unico contratto avente come finalità il rapporto di lavoro a tempo indeterminato che, nelle fasi iniziali (i primi 36 mesi), permette l’interruzione del rapporto di lavoro con previo pagamento di un certo numero di mensilità salariali che crescono al crescere della durata del rapporto di lavoro. In questo modo il contratto di lavoro garantirebbe al lavoratore tutele crescenti con l’anzianità di servizio, per esempio in termini protezione dell’impiego e modalità di ricollocazione in caso di interruzione.

Un altro intervento previsto dal Jobs Act riguarda la semplificazione del codice del lavoro per contenere la dispersione della normativa giuslavoristica. L’esigenza è ben presente non solo agli addetti ai lavori - giudici, avvocati e consulenti del lavoro -, ma anche ai milioni di lavoratori e imprenditori che quotidianamente si confrontano con tali norme. Tuttavia, l’esperienza passata non lascia ben sperare: interventi di semplificazione si sono spesso rivelati disorganici, confusi e spesso troppo generici, con sovrapposizioni a norme non abrogate, da richiedere ulteriori regolamenti interpretativi e attuativi tali da complicare ulteriormente il quadro.

Da dove partire? In Parlamento sono già depositati dei Disegni di legge che propongono interventi di semplificazione delle norme che regolano il rapporto di lavoro nel codice civile, e che potrebbero costituire una base di partenza per gli interventi di semplificazione. Non c’è dubbio tuttavia che il nostro ordinamento dovrebbe armonizzarsi il più possibile a uno standard europeo, per facilitare la mobilità dei lavoratori e gli investimenti di imprese estere nel nostro paese.

Qualche giorno fa Luca Ricolfi sulla Stampa proponeva il maxi-job, un contratto a tempo pieno con una busta paga non inferiore ai diecimila euro annui grazie a cui il lavoratore trattiene in busta paga l’80% del costo aziendale e la Pubblica amministrazione incassa il resto. È una proposta utile? In questi giorni frenetici in cui il governo mette sul piatto oltre 10 miliardi di risorse per tagliare il cuneo fiscale, circolano le proposte più varie e fantasiose per favorire la crescita e l’occupazione. Il dibattito che oppone chi sostiene che si dovrebbe procedere con un taglio dell’Irap e chi invece ritiene che si debba ridurre l’imposizione diretta sul lavoro non ha solide basi e si risponde principalmente a pregiudizi ideologici. Ci sono tuttavia alcuni punti dai quali qualsiasi proposta non dovrebbe prescindere.

Quali? Innanzitutto bisogna tener conto dei vincoli che il patto di stabilità ci impone sapendo che l’assenza di copertura per gli interventi previsti andrebbe incontro a sanzioni. Dire che quello delle coperture sia un falso problema è irresponsabile e servirebbe ad aumentare ulteriormente il debito senza creare le condizioni per una crescita stabile dell’occupazione.

Poi? Molte proposte cullano l’illusione di poter intervenire sulla creazione di posti di lavoro aggiuntivi, che non sarebbero stati creati in assenza di tali interventi. Esiste una letteratura economica consolidata che mostra come interventi di questo tipo abbiano principalmente effetti re-distributivi (anticipano o posticipano la creazione di posti di lavoro che sarebbero stati creati ugualmente), mentre gli effetti al margine sarebbero molto modesti. La verità è che sappiamo ancora troppo poco delle conseguenze che una riduzione del cuneo diretta a Irap, piuttosto che all’Irpef o ai contributi sociali produrrebbe sull’occupazione.