di Marco Lombardi*

Il Massacro delle Matite a Parigi evidenzia alcune caratteristiche che fanno evolvere il terrorismo verso una nuova forma ibrida di guerra.

Ecco gli aspetti più significativi da sottolineare:

•    che i terroristi impegnati erano militarmente addestrati all’uso delle armi in situazioni di combattimento urbano. Ciò conferma indirizzi del MI5 inglese riguardanti un addestramento specifico e l’esperienza nel battlefield siriano dove il teatro è soprattutto urbano. La conferma di un addestramento militare si ritrova anche nel tentativo ultimo di uscire allo scoperto ingaggiando le forze speciali, piuttosto che scegliere la via del “martirio”, cioè del suicidio. Un addestramento che non riguarda gli aspetti logistici ma solamente operativi e contingenti alla situazione. Tali competenze vengono dalla condivisione di situazioni di guerra - addestrativa o reale - sperimentate spesso insieme, che fondano legami e relazioni specifici (es. reducismo).

•    che la minaccia è diffusa perché i combattenti di ritorno da uno dei numerosi campi di battaglia sono in numero sufficiente per determinare un problema sistematico e che pertanto essi sono la minaccia più grave ormai portata in ogni paese europeo;

•    che le operazioni di Dammartin e Parigi erano collegate: un collegamento probabilmente non considerato dai francesi quando innescato dal primo episodio di attacco alla poliziotta. Capire in che modo fossero collegate è cruciale: il collegamento è stato pianificato in anticipo oppure è stata una risposta reattiva all’attacco a Charlie? Sembra che i tre avessero pianificato un’azione comune, che nel suo sviluppo ha avuto un andamento differente da quello previsto: ciò testimonia la preparazione militare all'azione, non quella logistica e pianificatoria. Mi sento di dire che si è sviluppato secondo un indirizzo generale previsto ma seguendo modalità di improvvisazione: è stato il supporto operativo di un commilitone al compagno in difficoltà, orientato a moltiplicare gli sforzi di ingaggio delle autorità. Non è stato, intendo, un attacco multiplo, tipico del recente terrorismo, ma una azione “complessa” opportunistica;

•    che la relazione tra Al-Qaeda e Islamic State resta problematica considerate le diverse attribuzioni della operazione: i due di Dammartin che attaccando Charlie rivendicano l’appartenenza ad AQAP; IS la reclama a sé da Mosul; il terrorista di Parigi si dice di Daesh. Una attribuzione, quest’ultima, ad IS utilizzando un vocabolo generalmente inteso come spregiativo dagli stessi militanti ma da settembre 2014 “obbligatorio” in Francia per i media locali su indicazioni delle autorità francesi: dunque la via migliore per farsi capire. Le stesse rivendicazioni, variegate per autori e tardive, l’assenza di una informazione diretta e “running” dall'area di azione che preveda l’ingaggio di una unità comunicativa (assai frequente nelle  azioni preordinate) mostrano come le rivendicazioni delle organizzazioni siano postume. Dai tre, pertanto, l’appartenenza fonda identità e intesa ma è sovrastruttura organizzativa, non è determinante per l’azione;

•    che gli strumenti normativi non sono più adeguati perché se è lecito monitorare questi personaggi non ci sono strumenti per neutralizzarli prima.

Bastano queste evidenze per cominciare a definire i nuovi scenari della guerra che si è avviata: ibrida per la diversità degli attori in gioco, le armi e gli obiettivi, il campo di battaglia determinato dalle possibilità degli attori e dalla vulnerabilità delle vittime ma non dalle dimensioni geografiche.

GLI ZOMBIE SONO LA NUOVA STRUTTURA DEL TERRORISMO

Nel cyber war fare gli zombie sono dei computer infettati che restano silenti fino a quando uno stimolo li attiva verso un bersaglio: sono competenze criminali virtuali diffuse nel cyber space pronte ad attaccare. L’attacco può essere scatenato dal verificarsi di una situazione locale o da uno stimolo lanciato da una centrale: questi segnali sono interpretati e attualizzati dallo zombie che si attiva con le sue risorse.

Questa è la forma che ha anche preso il terrorismo reale che:

- non è più da tempo strutturato in cellule: piccoli gruppi autonomi, competenti per assolvere a specifici ruoli, compresi all’interno di una catena di comando e controllo ben coordinata e sufficientemente rigida;

- non è più fatto di lone wolf, lupi solitari: singolarità scoordinate, con scarse competenze operative, pericolose per le loro capacità di improvvisazione;

- è fatto ormai da zombie: individui che sono singolarità competenti e addestrate al combattimento, che si ritrovano in reti semi-strutturate e flessibili, caratterizzate soprattutto da legami “affettivi” e soft (i reduci di Parigi che provengono dai medesimi campi di combattimento) che si attivano per ragioni “interne” o “esterne” (Nota: Dabiq, il magazine di IS aveva indicato nel direttore di Charlie uno dei bersagli!)

Il cambiamento in corso non è da poco: richiede un modo diverso di guardare al terrorismo per sviluppare strumenti di prevenzione (intelligence) e di ingaggio differenti dagli attuali.

Non più cellule, non più lupi solitari, solo zombie.

Gli eventi di Parigi dimostrano che non siamo ancora pronti: ancora una volta le istituzioni sembrano essere in ritardo e i nostri nemici più abili a sfruttare le nostre vulnerabilità. È opportuno cominciare a guardare al fenomeno che si è testimoniato a Parigi per la prima volta, ma prevedibile da tempo, con prospettive nuove.

*docente di Gestione del rischio e crisis management