di Lorenzo Ornaghi *

 

Nella Lettera Apostolica Altissimi Cantus del 7 dicembre 1965, con la quale – in occasione del settimo centenario dalla nascita del poeta fiorentino – si istituiva la Cattedra di Studi danteschi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Paolo VI volle soffermarsi sulla «dottrina politica» di Dante Alighieri. Papa Montini sottolineò con forza il significato e l’importanza che Dante aveva attribuito al perseguimento, da parte del genere umano, della felicità terrena, accanto (e in subordine) a quella celeste: Chiesa e Impero, entrambe «al servizio della res publica christiana», erano chiamate, pur nella loro indipendenza, ad «aiutarsi reciprocamente» per permettere la vita buona dell’intera civiltà umana. L’idea dantesca – egli proseguiva – di «una potestà sovranazionale, che faccia vigere un'unica legge a tutela della pace e della concordia dei popoli», seppur concepita in termini medievali, manifestava non solo attualità, ma anche freschezza politica.

 

Pur implicitamente, Paolo VI si scostava dall’interpretazione del pensiero politico di Dante allora (e ancora oggi) assai diffusa. Secondo una tale interpretazione, Dante è sì un profeta, ma – per usare la celebre espressione di Friedrich Schlegel – un profeta rivolto all’indietro. E il suo sogno politico di un’autorità universale nient’altro riecheggerebbe se non l’ultima, nostalgica esaltazione dell’ideale del Sacro Romano Impero, che aveva orientato la civiltà medievale e che ora tramontava per lasciare definitivamente spazio al sistema delle comunità politiche particolari, alle idee di sovranità e di Ragion di Stato, alla modernità e – con essa – ai molteplici processi di secolarizzazione.

 

La genesi del pensiero politico di Dante è strettamente legata all’esperienza del poeta non solo come cittadino della Firenze di quel tempo, ma anche e soprattutto alla sua (pur breve e travagliata) esperienza politica. Nella Firenze tra il XIII e il XIV secolo, la spietata ‘guerra civile’ tra Guelfi Bianchi e Neri, che dilania la città, non è lotta tra valori o principi, non ha finalità ideali. Come osserva Robert Davidsohn nella sua monumentale Storia di Firenze, in quel periodo ferveva «una lotta sorda per l’accaparramento del potere e le fazioni in tumulto stavano sovvertendo tutto l’ordine civile. Per ogni più futile pretesto si dava sfogo alle più selvagge passioni ed un’abominevole corruzione inquinava la cosa pubblica».

 

Il quadro non cambia, se si volge lo sguardo ai rapporti (o, per meglio dire, alle lotte) tra i comuni italiani. Ciò che Dante descrive nel Convivio è, dunque, una sorta di precisa istantanea della situazione politica del suo tempo. Oltre che dall’amore di Dante per l’indipendenza della patria fiorentina, la realizzazione – che egli invoca a gran voce – dell’humana civilitas e di un potere universale al di sopra di quelli particolari nascerebbe così, secondo Etienne Gilson, per soddisfare un’esigenza strettamente legata alla realtà politica del suo tempo: quella cioè di garantire alla sua città, e più in generale agli Stati italiani, un protettore sufficientemente potente contro «l’opera usurpatrice della Chiesa». In realtà, la profondità, la passione e l’incisività degli argomenti, coi quali Dante negli anni dell’esilio condanna la volontà di dominio del Papa e difende l’autonomia del potere temporale da quello ecclesiastico, superano il nobile ma troppo angusto ambito dell’amor di patria.

 

Entra così in campo il ‘presunto’ anticlericalismo di Dante. Nella Lettera ai Cardinali italiani – i quali durante l’aprile del 1314 erano riuniti in Conclave in una piccola città della Provenza, all’indomani della morte di Clemente V – Dante infatti sostiene che, per la loro sete di potere, alcuni pontefici sono stati causa dell’eclissi del Papato e la cura degli interessi mondani che ha invaso la gerarchia ha condotto la Chiesa quasi alla rovina. Questo preteso anticlericalismo è divenuto il cuore delle interpretazioni che vedono in Dante un fermo sostenitore della separazione più netta tra potere temporale e spirituale. Anzi – quasi egli fosse profeta dell’autonomia della ragione umana e del fine naturale dell’uomo rispetto alla fede e a ogni fine soprannaturale – un precursore di quel separatismo radicale che, poco dopo, troverà in Marsilio da Padova uno dei primi e massimi esponenti. Secondo queste interpretazioni ancora oggi radicate, per Dante combattere le pretese teocratiche del Papa significherebbe salvare l’autonomia dell’imperatore, affinché la «imperiale maiestade» possa compiere quella missione del tutto immanente che Dante gli assegna: assicurare la pace e la felicità terrene alle quali tutti gli uomini per natura tendono. A questo fine terreno si aggiungerebbe anche quello ultramondano, che Dante certo non nega. Il primo, però, sarebbe del tutto autosufficiente rispetto al secondo. In tal modo, con la sua difesa dell’indipendenza dell’imperatore dal Papa, Dante si rivelerebbe l’anticipatore di un’idea del tutto nuova – ‘moderna’, appunto – del rapporto tra potere temporale e potere spirituale: un rapporto di irreversibile separazione tra due realtà ormai dotate di piena autosufficienza.

 

Sulla dottrina politica di Dante avrebbero dunque ‘sbagliato’ Paolo VI e, prima di lui, Benedetto XV, il quale – nella Lettera Enciclica In praeclara Summorum del 30 aprile 1921, scritta in occasione del sesto centenario della morte del poeta – affermava che Dante «professò in modo esemplare la religione cattolica», e sapeva perfettamente che «il principale fondamento delle nazioni» sono «la giustizia e i diritti di Dio». Ma il quadro cambia se, al centro del pensiero politico di Dante, correttamente si mette non la critica al temporalismo del Papa, bensì il concetto di cupidigia e le conseguenze spirituali e materiali del suo trionfo. Per Dante, l’ordine e la pace terrene sono turbate dallo scatenamento di quella cupiditas che, in termini teologici, è la riduzione sul piano orizzontale dell’amor Dei per cui l’uomo non può in ultimo essere saziato da alcun bene finito. In termini temporali, la cupiditas è il contrario della giustizia: ossia è egoismo, volontà di sopraffazione e sete di potere. Come afferma Paolo VI, ancora nella Altissimi Cantus, secondo Dante l’agostiniana «tranquillità dell’ordine» – la pace che riguarda «i singoli, le famiglie, le nazioni, il consorzio umano, pace interna ed esterna, pace individuale e pubblica» – «è turbata e scossa, perché sono conculcate la pietà e la giustizia».

 

Del trionfo della cupidigia, il temporalismo di Bonifacio VIII è certo una manifestazione, ma non l’unica. La sua copia rovesciata, è infatti – come ha osservato molto acutamente Augusto Del Noce – il tentativo del Re di Francia di avere potestà diretta sul piano spirituale. Da questa prospettiva, Dante afferma la distinzione degli ordini perché vuole combattere la cupiditas, perché avverte profonda l’esigenza di permeare compiutamente di religione la vita pubblica. E questa esigenza è condizione essenziale per il raggiungimento della beatitudine celeste e della felicità terrena.

 

Vi è dunque una sorta di unità-distinzione che caratterizza, in Dante, il rapporto tra potere spirituale e quello temporale, dal momento che entrambi sono chiamati, pur nella necessaria distinzione, a cooperare armoniosamente per il bene integrale degli uomini: ossia per la felicità terrena e, insieme, per la salvezza delle anime, per la vita buona su questa terra, e insieme per la beatitudine celeste. Così, il fine naturale del genere umano – da perseguire con la ragione, e per raggiungere il quale è necessaria l’opera di un’autorità politica universale – non è in contrasto, bensì in armonia con il raggiungimento del fine soprannaturale e celeste, dettato dalla fede. Come scrive Dante stesso nell’ultima pagina del suo De Monarchia, proponendo un’affermazione sintetica della laicità dal punto di vista cattolico: «La felicità terrena è in un certo modo subordinata alla felicità eterna».

 

Suona dunque corretta e appropriata l’affermazione di Benedetto XV, quando egli sottolineava la consapevolezza di Dante che la giustizia e i diritti di Dio sono il più solido fondamento della famiglia umana e del sistema internazionale. Ce ne viene oggi un’ulteriore prova dalla recentissima Enciclica Caritas in Veritate, in cui Benedetto XVI giustamente ci ricorda: «Talvolta l'uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell'interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società: “Ignorare che l'uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell'educazione, della politica, dell'azione sociale e dei costumi”».

 

Appare pertanto sempre meno ragionevole concepire il pensiero politico di Dante semplicemente come quello – per dirla con Karl Vossler – dell’ultimo «cavaliere dell’ideale teocratico», o, al contrario, come quello di uno dei primi scultori del laicismo moderno. In Dante, semmai, ritroviamo gli elementi di una genuina e sana concezione di laicità. Una concezione che, sapendo armonizzare fede e ragione, è in grado di affermare e realizzare la necessità della dimensione pubblica della fede per il bene di tutti, credenti e non credenti.

 

* Rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Il testo pubblicato è solo una parte della lezione che il professor Ornaghi ha tenuto a Ravenna lo scorso 25 agosto