Product placementNel 2004 la legge Urbani apre al product placement ovvero all’inserimento per fini promozionali di marchi noti in film, serie televisive o video musicali. Dopo il primo periodo di euforia, però, questa nuova forma di pubblicità - in realtà già molto usata negli Stati Uniti - incontra alcune difficoltà. Così a dieci anni di attività del cosiddetto “embedded marketing” il dipartimento di Scienze dell’economia e della gestione aziendale dell’Università Cattolica ha organizzato un incontro per fare il punto sulla situazione attuale e sulle prospettive future di un fenomeno che in Italia stenta ancora a decollare. Dieci anni di product placement cinematografico “Made in Italy”, il titolo dell’iniziativa, cui hanno partecipato alcuni protagonisti del settore, e che ha preso spunto dai risultati emersi da una recente ricerca condotta da Roberto Nelli. Il docente di Marketing ha infatti analizzato il product placement prendendo in esame i 144 top film italiani dal 2004 a oggi. «In questo lasso di tempo è stato provato da 416 marchi diversi e in media ha interessato il 7% dei film - ha detto il professor Nelli - . Abbigliamento e accessori sono i prodotti più inseriti, seguiti da turismo, viaggi, auto e moto. Il picco si è avuto nel 2007/08».

Un settore che rende ma nel quale è fondamentale costruire un progetto, una prospettiva, non improvvisare e considerare l’investimento come qualcosa che dura nel tempo. A pensarla così è Giovanna Maggioni, direttore generale Upa (Utenti Pubblicità Associati), che ha voluto mettere in guardia dai rischi insiti nel product placement, invitando anche le aziende a tutelarsi con forme contrattuali adeguate. Allo stesso tempo, però, il direttore generale Upa ha richiamato l’attenzione sulle grandi potenzialità del settore: «Il product placement può avere un ampliamento enorme in un mondo digitale come il nostro. Non solo nei film o nelle serie tv, ma anche nei videogame».

«A seguito della legge Urbani abbiamo sperato di veder aumentare gli introiti pubblicitari», ha dichiarato Giovanni Stabilini, amministratore delegato di Cattleya, tra le più importanti case di produzione cinematografiche e televisive indipendenti in Italia. «Il primo a utilizzare questo tipo di marketing è stato un genio del cinema come Steven Spielberg. Ricordate la scatola di M&M’s nel film ET? Da noi dopo i primi anni di euforia, l’entusiasmo è scemato perché sono emersi diversi ostacoli. Il più importante dei quali riguarda le tempistiche: la data di uscita di un film rischia sempre di slittare, inoltre il picco di visioni si ottiene quando, dopo molti mesi, il lungometraggio viene fatto girare in televisione. In questa attesa il prodotto inserito è diventato già vecchio». Secondo Stabilini si va verso un altro modello, il «brand and content», in cui non c’è bisogno di far vedere il prodotto ma ci si concentra su tutto quello che c’è intorno, richiedendo un maggior grado di sofisticatezza, anche perché «il pubblico infatti è sempre più refrattario a un messaggio diretto e violento».

Tra i produttori cinematografici e le aziende c’è un fondamentale punto di mediazione rappresentato dalle agenzie di comunicazione. «Quando andiamo a vendere un prodotto non c’è ancora niente, poche scene e poco cast, c’è solo la sceneggiatura», ha spiegato Paola Mazzaglia, amministratore delegato Camelot, tra i leader in Italia che operano in questa fascia di mercato. «Ne riceviamo centinaia, scegliamo le migliori e andiamo a cercare i clienti che possano essere interessati - ha detto Mazzaglia -. Un tempo per approdare sul piccolo schermo era necessario avere a disposizione budget consistenti e, quindi, all’inizio il product placement è stato visto come un modo alternativo e più economico per arrivarci. Purtroppo c’è una parte di investitori che abbiamo perso per strada perché alcuni prodotti sono stati inseriti male. Ma non credo che questo modo di fare pubblicità sia arrivato al capolinea: l’importante è che il product placement non smetta mai di innovarsi e di cercare la forma migliore per arrivare al cliente».