La cerimonia di consegna del titolo di dottore di ricerca in Aula Magna dell'Università Cattolica del Sacro Cuore - MilanoCambiare è necessario anche se riformare la formazione dottorale europea sarà rischioso. Joseph H.H. Weiler, presidente dello European University Institute, uno dei massimi esperti a livello internazionale, vede soprattutto due tipi di rischi nel mettere mano a questa riforma: «Il primo è quello della generalizzazione: ci sono grandi differenze non solo tra Paese e Paese, ma anche tra settori disciplinari, per cui le osservazioni possono valere in alcuni casi e non in altri». Poi c’è un rischio “psicologico”, perché quando si parla di “riformare”, implicitamente si mette in discussione lo status quo e la reazione umana normale è difendersi e dire di no». 

Qual è questo status quo? Non è del tutto possibile fare un discorso generale perché le esperienze variano molto, per esempio in termini di durata del dottorato o di lunghezza della tesi dottorale. Di comune c’è, quasi nella generalità dei casi, la centralità assoluta della tesi di dottorato e del rapporto con il relatore. Anche in Italia o in Francia, dove è diffuso il modello delle Scuole di dottorato, che prevedono nel primo (e secondo) anno un programma didattico soprattutto a livello metodologico, l’esperienza del dottorando resta dominata dal rapporto uno a uno con il relatore. 

E questo cosa comporta? Se si ipotizza un’intervista immaginaria a dottorandi dal 1930 fino a oggi, più o meno la risposta a: «Cos’è per te il dottorato?» è: «Mi hanno dato un relatore, sto scrivendo una tesi». L’elemento che emerge di più dalle ricerche empiriche sui dottorandi è il loro sentirsi soli durante gli anni di dottorato: si tratta di una solitudine intellettuale, e in alcuni casi anche sociale.

Cosa si dovrebbe fare per farli sentire parte della comunità accademica di riferimento? Bisognerebbe innanzi tutto rispondere a un duplice paradosso. Il primo: escludendo rarissimi casi, non esiste una preparazione specifica dedicata ai docenti per imparare a essere relatori dei dottorandi. Anche questo è un mestiere. La relazione con supervisors “certificati” ha una funzione importante soprattutto nel primo anno di dottorato perché aiuta il giovane ricercatore a definire una valida domanda di ricerca e una metodologia corretta. Poi, l’ambito fondamentale nella guida della ricerca dovrebbe essere quello del gruppo di lavoro, o, in alcuni casi, anche di reviewers esterni. Un gran parte della riforma del dottorato passa dunque dal rapporto con il relatore: troppo stretto non è sano, troppo poco non è sano, solo con lui/lei non è sano.  

E il secondo paradosso? Nei dottorati si insegna a essere ricercatori, ma non esistono moduli su cosa significhi pianificare e organizzare un corso, qual è la metodologia degli esami, qual è la psicologia dei dottorandi. Prepariamo i futuri professori, ma non insegniamo una parte fondamentale del loro mestiere, ovvero insegnare. Ogni programma di dottorato con sbocchi accademici dovrebbe prevedere una parte di didattica pura, allo stesso modo di come avviene per gli insegnanti delle scuole elementari o superiori. 

In Europa, e in Italia in particolare, sempre più dottori di ricerca non trovano uno sbocco professionale in università. Che strade bisogna intraprendere? Credo che sia importante, preliminarmente, chiarire quale sia nel nostro Paese lo scopo del dottorato. Già oggi, e in futuro ancora di più, una gran parte dei dottori di ricerca non potrà rimanere nell’ambito accademico, e in molti non lo desiderano neanche. Una prima ipotesi di riforma potrebbe essere dunque una differenziazione dei programmi a seconda dello scopo: ci potrebbe essere una variazione, soprattutto nella fase finale del dottorato, dei programmi per coloro che vogliono restare in università e per coloro che svilupperanno la propria carriera nella Pubblica amministrazione, in azienda, nelle libere professioni, nelle organizzazioni internazionali. In questo caso, si potrebbero studiare componenti didattiche innovative, diverse da quelle accademiche tradizionali, come per esempio, prevedere interventi da parte di professionisti del mondo extra-accademico.  

E per quanto riguarda specificamente i dottorandi in ambito sociale e umanistico? Qui entra in gioco l’interdisciplinarietà. Nei programmi di dottorato in generale, e in particolar modo in queste discipline, dobbiamo uscire dallo scopo specifico della tesi finale. Prendiamo l’esempio di un futuro docente in Scienze politiche: non può bastare quello che ha imparato per preparare la sua tesi di dottorato, deve avere conoscenze e acquisire metodologie anche al di fuori di quelle specifiche per la tesi stessa. Il dottorando deve acquisire una competenza e una conoscenza professionale approfondita, ma deve sapere qualcosa anche di filosofia, di lettere, di diritto pubblico, eccetera. I professori universitari, in Europa ancora più che negli Stati Uniti, possono in questo modo essere custodi di una civilizzazione e di una cultura nobile.