di Francesca Brusa *
La prima cosa che ti colpisce quando arrivi a Gerusalemme è la luce. Il cielo è quasi sempre terso e tutti gli edifici, dalle abitazioni private ai grattacieli pieni di uffici e impiegati, sono tutti costruiti in pietra chiara: un particolare che dona alla città una luminosità intensa e particolare, che ho negli occhi ancora adesso.
La seconda cosa che ti colpisce è il numero di bambini di ogni famiglia di ebrei ortodossi che incontri per strada: non meno di tre, di solito sei, a volte nove. La terza è la pluralità di culture e religioni presenti nella città: ebrei, musulmani, cattolici e armeni convivono, non troppo pacificamente, ma tollerandosi (o, forse, sarebbe meglio dire ignorandosi) l’un l’altro e non è strano ritrovarsi a camminare per strada sentendo le campane di una chiesa suonare a festa e il muezzin che richiama i fedeli alla preghiera a poca distanza.
Io e Lorenza, la mia compagna di viaggio, siamo arrivate al centro santa Rachele di venerdì pomeriggio, quando stavano per terminare le attività settimanali. C’erano pochi bambini in quel momento, perché era tardi e molti erano già andati a casa. Del nostro arrivo mi ricordo molto bene gli occhi grandi e curiosi di Josie, un bambino di 5 anni che ci è subito venuto incontro con un gran sorriso, entusiasta della novità che costituiva il nostro arrivo.
Noi ragazze eravamo alloggiate presso la casa dei volontari, una grande casa divisa in due appartamenti: uno per i volontari e l’altro adibito a casa famiglia, dove al momento del nostro arrivo vivevano Barbara e Gloria, due ragazze originarie di Forlì, e 5 bambini provenienti da situazioni familiari particolari. Accanto alla casa c’era il convento dei frati cappuccini e la casa di suor Claudia, la responsabile del centro, e di suor Sandra.
Il nostro appartamento era molto grande e ospitava in tutto 13 volontari, ragazzi e ragazze di età compresa fra i 18 e i 35 anni, provenienti da Italia, Francia, Germania, Polonia e Gran Bretagna. È stato bello poter condividere l’esperienza con loro. Ciascuno di noi era arrivato in quella casa percorrendo strade diverse, ma tutti eravamo lì per lo stesso motivo: aiutare chi ne aveva bisogno donando il nostro tempo e cercando di fare del nostro meglio, ciascuno secondo le proprie possibilità. Questo ha creato un collante importante fra di noi e che mi ha fatto sentire “a casa” fin dalla prima sera in cui sono entrata nell’appartamento.
Dopo le giornate intense e frenetiche di lavoro era bello trovarsi la sera con gli altri volontari, che avevano seguito ciascuno un diverso gruppo di bambini, e dirsi quello che era capitato durante la giornata. Ogni giorno ciascuno di noi raccontava qualcosa in più di sé agli altri e tutti ascoltavamo. A turno cucinavamo i piatti tradizionali dei nostri Paesi, dividevamo il cibo e le faccende domestiche. In una parola: condividevamo.
Da lunedì a venerdì noi ragazze eravamo impegnate con i bambini di età compresa fra i 3 e i 9 anni di età, dalle 8 alle 17. Le giornate erano così organizzate: accoglienza al mattino e gioco libero, attività strutturata con materiale vario (pennarelli o tempere o perline per esempio) , balli e canti, uscita al vicino parco per permettere ai bambini di giocare nel verde, rientro al centro e preparazione dei pasti che i bambini si portavano da casa, riordino del refettorio e riposino per i più piccoli (bastava un lenzuolino steso per terra per farli addormentare!), visione di un film nella sala video per i più grandi, per evitare di giocare nelle ore più calde della giornata, risveglio e gioco libero in attesa dei genitori.
Sono state tre settimane intense: il lavoro da fare era tanto e i bambini erano instancabili, a volte più impegnativi del previsto, soprattutto perché la maggior parte di essi proveniva da contesti sociali e familiari disagiati. Noi volontari cercavamo di comunicare con loro in inglese, ma non sempre riuscivamo a farci capire e allora abbiamo usato spesso i gesti. La maggior parte dei bambini al nostro arrivo era diffidente, ma dopo qualche giorno questa barriera è stata superata e, grazie a molta costanza e pazienza, siamo riuscite a conquistare la loro fiducia.
Nei fine settimana, il centro era chiuso e così ne abbiamo approfittato per esplorare i dintorni: abbiamo girato ogni angolo del centro storico della città, visitato musei e luoghi santi. La posizione della casa, molto vicina al cuore di Gerusalemme, ci ha permesso di visitare il centro storico della città più di una volta, anche durante la settimana se la stanchezza lo permetteva, appena terminate le attività con i bambini.
Grazie all’aiuto di padre Yunus, un frate cappuccino che viveva nel vicino convento che ci ha procurato un passaggio su un pullman di turisti siracusani, siamo anche riusciti a visitare Nazareth, il lago di Tiberiade, Cafarnao e il monte delle beatitudini. Abbiamo visitato anche Betlemme e Betania, entrambe situate nei territori palestinesi ma raggiungibili con gli autobus pubblici di linea. E poi Masada, città simbolo della resistenza giudaica contro l’impero romani, l’oasi di En Gedi e il Mar Morto.
Sono grata di aver fatto quest’esperienza: viaggiare allarga gli orizzonti e viaggiare facendo un’esperienza di volontariato lo fa aprendoti gli occhi, il cuore e la mente. Ti insegna (o ti ricorda) l’importanza e la gioia del condividere e del donarsi per gli altri. E la ricompensa è il ricordo delle risate dei bambini che hai conosciuto, dei loro sorrisi e dei loro occhi grandi pieni di gioia e curiosità. Non c’è cosa più bella.
* 31 anni, di Bergamo, studentessa della laurea magistrale in Consulenza pedagogica per la disabilità e la marginalità, facoltà di Scienze della formazione, campus di Milano