di Mila Lazzari *
Due giorni di viaggio, undici ore di macchina dalla capitale all’orfanotrofio che sembrano interminabili ma allo stesso tempo costringono a tenere il naso attaccato al finestrino per vedere il paesaggio e la vita di un Paese agli antipodi della nostra quotidianità, in cui la bellezza del territorio e la povertà della gente creano un contrasto difficile da razionalizzare.
Vedo bambini che portano sulla testa i mattoni per costruire le case o che chiedono l’elemosina lungo la strada, donne che vendono verdura e frutta sui marciapiedi, uomini che spingono carretti carichi di sacchi pesanti per le strade rosse sterrate. Mi sembra incomprensibile un divario così netto con il mondo in cui sono abituata a vivere.
“I bambini vi aspettano e non vedono l’ora di vedervi!” ci ripete Suor Gabrielle, e noi reagiamo stupite di come quei ragazzini potessero essere così impazienti sebbene non sapessero nulla di noi. È buio quando arriviamo all’orfanotrofio ma quando il pullmino entra dal cancello i sorrisi e le urla dei bambini accendono completamente l’atmosfera: si sovrappongono le voci per chiedere i nostri nomi ripetendoli in continuazione, cercano in massa la nostra attenzione per presentarsi tutti assieme, c’è chi ci prende subito per mano e chi ci guarda con occhi meravigliati.
Le giornate nell’orfanotrofio iniziano prima della sveglia, quando alcuni dei più piccoli sono già fuori dalla stanza a giocare con dei pezzetti di giornale o con la palla e puntualmente ci aspettano per ballare la prima “macarena” della giornata o giocare a “sardina”. Ci insegnano subito un “saluto di riconoscimento” ed è d’obbligo farlo con tutti quando sono sul pullmino in partenza per la scuola. Ci sono poi i piccolissimi, con loro non serve saper parlare la stessa lingua perché basta sedersi nella stanza dei giochi per ritrovarseli sbucare da ogni parte del corpo pronti a farsi fare il solletico e ridere a crepapelle. Tra una corsa e una partita di calcio, c’è tempo anche per qualche lezione di malgascio.
Le ragazze più grandi invece non vedono l’ora di farci delle trecce, la loro specialità. La sera, dopo aver cambiato e fatto addormentare i più piccoli con tanta pazienza, i ragazzi non hanno ancora perso le energie e ci tengono a giocare nelle loro stanze finché la nostra ora di cena segna il momento di salutarci. La parte più sorprendente di questa esperienza è stata fermarmi a riflettere su come questa felicità travolgente nascondesse in realtà storie di abbandono, separazione forzata o involontaria: c’è chi ha i genitori in prigione, chi ha perso la madre per colpa del parto e il padre non lo può mantenere, c’è chi è nato in un villaggio in cui i gemelli sono una maledizione e dunque sono stati costretti a portarli fuori da esso, chi ha ancora qualche parente da raggiungere per le vacanze estive e chi invece è stato abbandonato per strada. Eppure, grazie anche alle suore ed alle balie che con pazienza e dedizione hanno creato una vera famiglia allargata, questi bambini mi hanno insegnato il valore dei piccoli gesti e di stare insieme senza pretese.
Sicuramente questa esperienza mi ha reso più convinta del percorso di studi in cooperazione internazionale che ho scelto di intraprendere, enfatizzando il ruolo cruciale della conoscenza dell’altro per poter gestire insieme le esigenze prioritarie. Sono partita chiedendomi se potessi fare abbastanza per loro, torno a casa convinta che siano loro ad aver fatto molto più per me dandomi la possibilità di diventare consapevole dell’importanza della semplicità. Misaotra betsaka, grazie di cuore.
* 23 anni, di Cremona, primo anno della corso di laurea magistrale in Politiche per la cooperazione internazionale allo sviluppo, facoltà di Scienze politiche e sociali