di Diana Canzi *

Diana Canzi con la bandiera italiana nel giorno dell'homecoming“Tu vo’ fa l’americano”, si diceva anni fa, e forse ancora oggi il detto vale: qual è una delle ragioni più forti per studiare in America se non quella di provare l’ebbrezza dello stile di vita che si vede al cinema? Una delle motivazioni principali per me è stata quella di cercare di capire questa cultura che tanto ci influenza. Per questo fin dall’ottobre 2008, quando ho iniziato a interessarmi ai programmi di studio all’estero, la mia attenzione si è posata su Isep Usa. Ad aprile 2009 una lettera, malconcia per la traversata oceanica, arriva nella mia posta: sono stata accettata alla Western Illinois University, un campus medio-piccolo nella cittadina universitaria di Macomb, a quattro ore da Chicago. Ad agosto arrivo sul posto che sembra promettere bene per il mio attento studio dell’americano medio nel suo ambiente naturale, un Mid-West popolato di campi di mais e strade dritte che si perdono all’orizzonte.

Dopo tre mesi di attenta riflessione, mi ritrovo alla prova del nove: la festa del Ringraziamento, la ricorrenza forse più pregnante per questo paese, che unisce culto dello stato e religione, mito delle origini e consumismo. Siedo a una tavola squisitamente decorata nei toni del rosso, riscaldata dalle candele del centrotavola, sullo sfondo un tacchino perfettamente arrostito e un albero di natale carico di bastoncini di zucchero. Solo che attorno a questa tavola non siede neanche un americano. I padroni di casa vengono dall’Arabia Saudita; vicino al tacchino e al suo tradizionale ripieno, il purè, le salse, il succo di mirtilli, le torte, c’è una pentola di riso iraniano; gli ospiti vengono da Turchia, Iran, Grecia, Afghanistan, Libano, Russia, Messico, e naturalmente Italia. A questa tavola mi rendo conto che tutti noi studenti stranieri qui abbiamo “voluto fare gli americani”, ma non lo siamo. A questa tavola di festa mi rendo conto che, stranamente e inaspettatamente, mi sento molto più a mio agio con questa gente, i miei amici mediorientali musulmani, che con gli americani.

Confronto questa cena con quella che ho avuto con la famiglia della mia International Neighbour, un programma del Centro per gli Studi Internazionali della Wiu che assegna ogni nuovo studente straniero a una famiglia del posto per un reciproco scambio culturale. Con loro mi trovo bene, sono interessati alla mia cultura e al mio paese, anche al di là degli stereotipi: eppure la sensazione è che manchi un tassello di base nella comprensione del loro modo di rapportarsi alla gente e che mi impedisca di entrare veramente in contatto con loro. Resto perplessa su come comportarmi e come interpretare certi atteggiamenti. Vedo molte contraddizioni: sono molto ospitali, invitano facilmente persone appena conosciute (o addirittura sconosciute) ma poi non sembrano genuinamente interessati a tenerti compagnia. Esaltano il meltin-pot, ma ammettono di non sapere nulla del resto del mondo. Con i miei amici arabi, invece, non c’è stato nessun imbarazzo iniziale, nessuna sensazione sfuggente di incomprensione.

Chiacchierando con la mia professoressa di cinema qui alla Wiu, Roberta Di Carmine, cresciuta in Italia ma trasferitasi negli Stati Uniti per studio e ricerca, mi sono arrivati alcuni interessanti spunti di riflessione dalla sua esperienza personale: una delle caratteristiche degli americani, dice, è lo spiccato individualismo. Parlando con una punta di sciovinismo italiano che si scopre solo andando all’estero, si potrebbe chiamarlo un difetto: per esempio un problema enorme da queste parti è la disgregazione della famiglia tradizionale, con un numero di divorzi superiore al 50%; dalla sua prospettiva privilegiata la mia “prof” nota come i ragazzi, soli in un campus senza il supporto di una famiglia, cedano o comunque abbiano spesso grosse difficoltà. Un individualismo, quello americano, che assume forme diverse e spesso contraddittorie: molto difficile è infatti pensarlo all’interno di una società che dà tanto valore all’appartenenza a una o più comunità: quella americana in generale, quella religiosa, quella cittadina, quella degli studenti, una confraternita, un ufficio, un giro di amici. Individualismo e comunità risalgono, come ho potuto imparare dal corso di Letteratura Americana, all’inizio stesso della “civiltà” americana, al periodo dei Padri Pellegrini e dei Puritani, che hanno tramandato un senso di “eccezionalismo” e “self-improvement” che si sente ancor oggi.

Diana Canzi con gli altri studenti stranieri che hanno partecipato al Language Boulevard dove sono stati chiamati a offrire mini lezioni delle rispettive lingueSpesso si dice che gli Stati Uniti sono un paese giovane, quasi privo di radici: io credo che non sia vero; se sono un paese relativamente giovane, si sono creati radici molto forti. Per noi europei e per il resto del mondo è difficile riuscire a cogliere il vero carattere americano: crediamo di conoscerlo, ma ciò che vediamo è solo un vestito abbagliante, ma non la persona che lo indossa. La ragione credo sia dovuta proprio al fatto che il carattere europeo rimane profondamente diverso da quello americano, anche se non ce ne rendiamo conto: ci sentiamo vicini agli Usa perché ne adottiamo lo sgargiante vestito. Ma questo vestito è comunque indossato sopra indumenti più antichi: abiti che abbiamo in comune con altre culture. Fuor di metafora, ciò che mi ha permesso di entrare velocemente in connessione con i mediorientali è una sorta di modello base mentale che abbiamo in comune. Non è un fatto culturale, infatti alcune loro situazioni e comportamenti mi appaiono lontani e stranieri; è piuttosto un imprinting relazionale, un modo di considerare i rapporti tra persone, famiglie, comunità, identità, diverso da quello americano.

Se lo sciovinismo porta a criticare, non bisogna comunque ignorare gli aspetti positivi. Il sistema universitario offre uno spunto di confronto piuttosto provocatorio. Roberta Di Carmine ricorda com’era l’università italiana quando ha deciso di lasciarla: cattedre paralitiche, professori poco interessati allo studente, nessuna spinta a una riflessione indipendente, poche possibilità di una soddisfacente carriera universitaria. Tutte cose molto diverse negli Stati Uniti: la maggior parte delle lezioni sono basate sulla discussione attiva in classe, i professori premiano e stimolano idee originali. In quanto a carriera, tantissimi ragazzi dai 23 ai 30 anni insegnano già. Si parla spesso di terra delle opportunità e di sicuro il sistema è più flessibile di quello italiano, anche se si sta aggiornando: pare che impegnandosi si possa arrivare lontano, diversamente dalla sensazione che si ha in Italia, dove impegnandosi forse, con molta fortuna, si può arrivare un po’ più in là. È sempre una questione di mentalità: ho potuto confrontare le modalità per scrivere un saggio di letteratura: a Milano era tassativamente proibito esporre un’idea originale che non fosse supportata da una citazione di un critico famoso, pena la vaporizzazione di molti punti del voto finale; in Illinois è tassativamente proibito esporre un’idea originale che sia ispirata al lavoro di altri, pena una F e un’inchiesta ufficiale per plagio.

Alla mia partenza le possibilità di riuscita per questo viaggio erano due nella mia mente: trovarmi talmente bene da progettare di rimanere o rivalutare le mie “radici”. La seconda ha prevalso, e non solo: ho dovuto ridefinire le mie radici, che sono molto meno americane di quanto pensassi. Insomma America terra mitica che però non è casa.

* 21 anni, studentessa del corso di laurea in Lettere oderne, curriculum letteratura e arti, facoltà di Lettere e filosofia, sede di Milano – Progetto Isep