Il destino dell’Italia di fronte alla crisi più grande del dopoguerra è fortemente intrecciato all’azione delle Istituzioni europee. I dati del Fondo monetario internazionale stimano che la dimensione della caduta del Pil a livello mondiale sarà -3,3%, Europa-7,5%, e ben -9,1% nel caso italiano.
«Questa crisi colpisce in modo apparentemente simmetrico tutti i Paesi europei». Afferma il professor Francesco Timpano, direttore del Centro studi di politica economica della Cattolica e docente della facoltà di Economia e Giurisprudenza. «L’impatto economico sarà differenziato a seconda della capacità dei paesi di rispondere, e i Paesi dell’area Sud dell’Europa hanno margini di azione più limitati dei Paesi del Nord Europa. Per questo si auspica un intervento di spinta alla ripresa dell’Europa, in modo che i modesti risultati ottenuti sulla coesione non vengano ulteriormente compromessi».
Come dovrebbe muoversi l’Europa? «Il ruolo maggiore l’Europa dovrebbe giocarlo sul fronte della ricerca, investendo molte risorse per debellare il virus e organizzando il sistema industriale in modo appropriato e a vantaggio di tutti gli europei sul fronte delle cure e dei vaccini. Anche dal punto di vista della competitività, le asimmetrie si faranno sentire, anche se i legami industriali tra le catene del valore europee sono consolidate e gli impatti negativi in alcune aree dell’Unione si fanno sentire anche in Paesi più competitivi come la Germania. La capacità delle politiche di preservare le catene del valore europee e i loro rapporti con il resto del mondo sarà un elemento decisivo per salvaguardare la produttività e la competitività delle industrie e delle imprese europee».
Come giudica le azioni delle banche centrali in risposta al coronavirus? «L’intervento della Banca centrale Europea c’è stato e ci sarà. Il “bazooka” di Draghi è già all’opera e la disponibilità appena introdotta di acquistare anche bonds con rating bassi segnala da un lato la gravità della situazione e dall’altro il fatto che probabilmente su questo fronte non dovrebbero esserci cambi di rotta nella policy. Aperta è in prospettiva la discussione se non si possa passare ad una monetizzazione pura del debito. I paesi europei sono certamente chiamati a dare una risposta sulla sfida più importante che è quella di rafforzare la risposta fiscale, a partire da quella comune.
Il percorso scelto si è consolidato con la riunione del Consiglio di giovedì scorso. Accanto agli interventi già avviati dall’Eurogruppo (Mes, Bei e Sure) e al contributo che è già all’opera della Bce, avremo un Recovery fund su cui, purtroppo, non vi è ancora chiarezza e la Commissione dovrebbe dare indicazioni entro il 6 maggio. I tempi si allungano e ciò non è un bene, però il risultato politico c’è».
Ha ragione Christine Lagarde quando dice che è più importante una risposta fiscale da parte dell’Ue? «Sono da sempre favorevole a un incremento delle risorse del bilancio europeo (per esempio, attraverso un trasferimento di fiscalità proporzionato alla popolazione) per garantire prestiti di lunga scadenza per fronteggiare la crisi: potrebbe essere l’occasione per cominciare a cambiare il volto dell’Europa. Poi certamente avremmo bisogno di interventi fiscali degli Stati membri, in particolare di quelli che possono permettersi un temporaneo aumento del deficit. Certo è che gli spazi di manovra sono meno ampi per un Paese come l’Italia, che nello scorso anno ha dilapidato risorse in politiche poco avvedute e di incerto impatto».
Quali strumenti potrebbero essere adottati per favorire un contenimento dello spread nei Paesi con la situazione più critica? «Gli strumenti del “whatever it takes” sono stati sperimentati nel passato con successo. Potrebbero non bastare se la Bce non si dimostrerà flessibile nell’affrontare la situazione in funzione della sua evoluzione. Il livello di rischio percepito mi pare più alto in questa situazione che nella crisi del 2008 e i mercati in queste situazioni prezzano il rischio di debito sovrano senza fare sconti. In principio, la mutualizzazione del rischio dovrebbe abbassare gli spread e per questo dei bond europei sono una soluzione auspicabile, almeno per finanziare gli investimenti futuri dell’Unione. Speriamo che, almeno nel medio periodo, possano essere attivati».
Come valuta la risposta negativa all'utilizzo dei coronabond da parte dei Paesi del nord Europa? «Mi pare una posizione miope, destinata ad essere rivista dall’evoluzione dei fatti. Sul piano tecnico ognuno degli strumenti di cui si parla in questi giorni comporta potenzialità e problemi. Mettere in pista una pluralità di strumenti mi pare inevitabile e per questi ci vuole tempo. Purtroppo i tempi della formazione del consenso politico in Europa sono ancora troppo lunghi. In ogni caso, questa avversione è il frutto del sentimento antieuropeo o euroscettico che è stato negli anni passati favorito da aree politiche molto ben individuabili e che oggi è entrato nelle convinzioni politiche di molti europei. Ad essi va ascritta, in primo luogo, la responsabilità delle difficoltà del modello europeo».