Una riflessione attuale e pungente sull'economia, che fin dall'etimologia rimanda al suo essere scienza umana più che scienza esatta. Una disciplina che deve ricondurre l'uomo (economico) nella casa naturale della giustizia. Silvano Petrosino, docente di filosofia morale in Cattolica e direttore dell'Archivio "Julien Ries" per l'antropologia simbolica, presenta così il suo ultimo libro, vincitore nella sezione economica del Premio Capri S. Michele, immediatamente alle spalle di papa Francesco autore di Guarire dalla corruzione. L'Elogio dell'uomo economico, fresco di stampa per i tipi di Vita e Pensiero, è un saggio sull'economia, che potrebbe stupire i lettori abituati a conoscere Petrosino come studioso di filosofia, etica, semiotica. Da dove nasca una riflessione sull'economia lo spiega lui stesso: «I miei interessi sono sempre di tipo antropologico - afferma l'autore - . Ho scritto vari saggi sempre a partire dall'uomo, dalle sue menzogne, dalla sue interpretazioni caricaturali che circolano senza sosta. L'uomo in relazione allo sguardo, allo stupore, all'invidia, all'abitare, alla ricchezza, al denaro. È una sorta di mappa dell'umano in rapporto alle diverse situazioni all'interno delle quali il soggetto si trova concretamente a vivere. Nel 2012, su invito del professor Enrico Garlaschelli che mi ha anche onorato scrivendo la prefazione al libro, ho inaugurato il Festival Piacenza Teologia con alcune riflessioni sull'uomo economico, ed è stata l'occasione per far alcuni approfondimenti e far nascere questo Elogio».

«L'aggrovigliata trama dell'umana esperienza»: il suo libro si apre con una citazione di Cassirer che subito porta il lettore a pensare alla crisi che stiamo vivendo, una crisi che non è solo economica ma che spesso viene imputata solo alla finanza. L'economia è solo questo?

Giocando un po' con le parole potremmo dire che l'economia non è riducibile alla sua dimensione economica. Nel suo significato originale l'«economia» è la «legge della casa», quella particolare forma dell'amministrare che si esercita all'interno di una «casa» e che quindi ha a che fare con le relazioni di quel luogo. Quando si riduce l'economico al finanziario, cioè al profitto, si mette in atto una semplificazione che diventa una menzogna, una falsificazione dell'«aggrovigliata trama dell'umana esperienza».

È un attacco alle colpe della finanza?

Il profitto e la finanza non sono un male, e personalmente sono contro il no global e tutta quella corrente di pensiero, compresa la teoria della decrescita. Vanno però inseriti in una "scena umana" che è molto più ampia, complessa e aggrovigliata e che deve fare i conti con i suoi nodi. Per evitare di affrontarli, l'uomo semplifica, con il rischio di consegnarsi al luogo comune imboccando di conseguenza una strada senza via di uscita.

Eppure la finanza si basa sui numeri e misurare e calcolare sono due azioni della matematica, che non è un opinione, oppure sì?

L'economia deve calcolare, ma ciò che bisogna opporre alla deriva distruttiva del business non è la «gratuità», e neppure un'«etica degli affari» o un'«economia del dono», ma l'«economia», semplicemente l'economia, anche se deve essere all'altezza del suo stesso nome.

Cosa deve fare per esserlo?

Per essere tale, è come obbligata a rispondere a un doppio imperativo: deve misurare e calcolare (non può procedere a caso: necessita di una ratio), ma al tempo stesso deve anche riconoscere che il suo calcolo (la sua ratio) è destinato per delle ragioni essenziali a misurarsi con l'incalcolabile. L'economia, dunque, che non può evitare di calcolare, non deve tuttavia calcolare matematicamente, ma economicamente: fuor dalla filosofia è quello che succede in ogni famiglia, quando si cerca di calcolare tenendo conto delle persone che la compongono e delle loro manie, personalità, esigenze. L'incalcolabile è il fattore umano, quello che nel libro chiamo giustizia, perché la giustizia è tener conto dell'altro.

Ascoltando la risposta del professor Petrosino, vengono alla mente le parole pronunciate, alla fine del Settecento, da Antonio Genovesi, uno dei fondatori della moderna scienza economica, contemporaneo di Adam Smith e primo in Europa a ricoprire una cattedra di Economia a Napoli nel 1754, le cui lezioni sono di recente state raccolte nel volume Lezioni di economia civile, a cura di Francesca Dal Degan, VeP, 2013. Genovesi scriveva: «In natura queste parole, giusto, onesto, virtù, utile, interesse non si possono se non istoltamente disgiungere». Oggi però le esigenze di mercato sono disgiunte dai principi della morale: solo di fronte alla crisi si tenta di riallacciare l'economia all'uomo.

È necessario passare per il fallimento di un sistema razionale per arrivare alla questione morale?

Non è necessario, però di fatto avviene così. Un teologo diceva che Dio riesce ad avvicinare l'uomo solo d'inverno, come il merlo che si avvicina solo quando non trova cibo. L'uomo rischia sempre di "ubriacarsi" delle sue stesse risorse, perde la visione globale e si richiude in altro, la giovinezza, il denaro, la tecnologia. Non è necessario passare dalla malattia o dal fallimento, ma poi solo di fronte a una crisi come la nostra ripensiamo a temi importanti, tra questi l'economia come scienza umana e non come scienza esatta.

Possiamo fare un parallelo con la recente tragedia di Lampedusa che tanto fa discutere sulle leggi che riguardano l'immigrazione?

In astratto si emanano delle leggi, si elaborano dei progetti anche a livello europeo, ma quando il sofferente bussa alla porta come si fa a non accoglierlo? Durante l'Olocausto coloro che hanno aiutato gli ebrei e coloro che li hanno perseguitati hanno giustificato il proprio comportamento utilizzando una stessa frase: "Che cosa potevo fare?". Lo disse una scrittrice (nazista) che accolse e offrì rifugio alla sua vicina di casa con le bambine ricercate dalla Gestapo. Lo dissero i gerarchi che applicavano le leggi del regime senza pietà, perché quella era la legge.

E nel caso citato?

Al di là della sfera politica, in cui non voglio entrare, e quindi delle leggi sull'immigrazione, concretamente c'è una dimensione naturale etica-morale che spinge l'uomo a occuparsi del prossimo: banalmente se incontriamo un bambino per strada solo, che piange, credo sia naturale confortarlo, prestare attenzione, avvisare la polizia ecc. Questa piccola esperienza quotidiana andrebbe applicata su larga scala.

D'altronde nel libro lei parla anche dell'uomo come essere finito, come colui che ha un limite naturale di cui è cosciente. Come si lega questa consapevolezza escatologica con l'economia?

Il limite è una condizione; il rischio è che si trasformi in un'obiezione e quindi in una tentazione. Il sapersi limitati e mortali rischia di trasformarci in esseri avidi e violenti: proprio perché so che sono limitato, allora prendo tutto quello che posso, cedo alla tentazione del fine egoistico di un'economia che vive per il solo profitto. La tentazione poi diventa colpa. Bisogna pertanto affermare con la massima decisione che l'esperienza del limite, anche quando fosse dolorosa e tragica, non è mai una giustificazione per compiere il male; il fatto di agire solo per l'oggi e solo per me stesso non trova giustificazione nell'evidenza che la vita è limitata, perché allora non varrebbe neanche la pena fare del bene per il solo fatto che moriremo. È chiaro che è una tesi insostenibile e così lo è anche un'economia fine a se stessa. È una tematica che ha attraversato spesso anche la letteratura, e in contesti che rimandano proprio alla gestione della famiglia, della casa, basti pensare all'Avaro di Molière o a papà Grandet di Balzac.

Che consiglio darebbe a chi tutti i giorni gestisce l'economia della propria casa?

Non perdete di vista "l'aggrovigliata trama", curate l'antropologia della ricchezza, ossia il rapporto con le persone, i legami con l'altro: gli amici, il marito, la moglie, il figlio, uno studente che ti dice grazie per il corso. Anche se non tornano i conti io penso che ogni vero uomo rinuncerebbe a guadagnare qualcosa in più se questo "più" va a scapito di altre vite umane. E penso al crollo del Rana Plaza, la fabbrica di nove piani crollata in Bangladesh, il cui bilancio ha superato le 1000 vittime; poche spese per la sicurezza e la manodopera per produrre capi a basso costo: ma a che prezzo?. Life is now in realtà è un no alla vita, è uno spot basato sulla logica del consumo, non del benessere personale e di quello degli altri.

Arrivare secondo in un premio letterario può dispiacere, ma quando prima di lei c'è il Papa come ci si sente?

Onoratissimo, senz'altro. Un premio poi non è importante in sé ma per il fatto di richiamare l'attenzione su un argomento: i temi che ruotano attorno al denaro, come la corruzione - soggetto del libro di Papa Francesco - o l'economia, il business, sono urgenti e devono essere affrontati con sempre maggiore attenzione, perché il rischio del silenzio è una spirale di distruzione.