Formazione 3.0Cosa succederebbe se un corso universitario, un master o un percorso executive si potessero cucire su misura di chi li frequenta o costruire come un prodotto stampato in 3D? Una domanda giustificata dallo tsunami tecnologico che negli ultimi anni ha prodotto nella formazione innovazioni high tech (e, si spera, sempre più high touch, come sostiene il professor Federico Rajola nell’articolo qui a lato). 

Studiosi autorevoli sono arrivati ad affermare che alcuni di questi grandi cambiamenti che riguardano il sistema dell’Alta formazione, in termini di scopi, contenuti, approcci di insegnamento e apprendimento, stanno provocando un cambiamento nello stesso DNA delle istituzioni accademiche

Gli esempi di innovazioni nel settore dell’Higher Education hanno nomi che rimandano a pratiche che cominciano a diventare familiari nelle università: non solo i MOOCs, le piattaforme online che offrono corsi aperti e gratuiti (https://www.coursera.org/, https://www.edx.org/, https://www.udacity.com/), ma anche il mobile learning, le flipped classrooms (videolezioni gestite individualmente dagli studenti e discusse successivamente in classe con i docenti), e la gamification (l’applicazione in contesti non ludici, come quello dell’education, dei giochi, soprattutto videogame e virtuali, e delle dinamiche a essi connessi). 

Uno dei concetti associati all’innovazione è quello del Design Thinking. Abbiamo avuto modo di testare questo approccio grazie alla collaborazione tra Università Cattolica e lo studio di consulenza internazionale Continuum Innovation, nell’ambito del programma di formazione all’imprenditorialità Dr. Start-upper. Alcuni studenti hanno partecipato, negli headquarter milanesi della società, a una giornata di formazione innovativa sia sotto il profilo dei contenuti, sia nelle modalità didattiche. 

Federico Ferretti«Il Design Thinking - spiegano Federico Ferretti (nella foto) ed Enrico Girotti, Managing Director e Senior Designer di Continuum Innovation Milano - è un approccio innovativo, che si distingue ed è complementare con il più tradizionale “Business Thinking”, per la risoluzione di problemi di qualsiasi natura: dalla realizzazione di un nuovo prodotto, di un servizio, al lancio di una nuova impresa o alla riorganizzazione di un’offerta esistente. È un supporto utile nell’analisi di un problema, nella generazione di soluzioni e nella valutazione della loro efficacia. Il Design Thinking è un mindset che si basa sulla collaborazione, sulla sperimentazione e sulla capacità di calarsi nei panni dei vari attori coinvolti nel progetto su cui ci stiamo focalizzando».

Gli studenti della Cattolica hanno sperimentato esercitazioni individuali e in team, presentazioni e momenti di “liberazione della creatività”. Un processo importante per persone impegnate in un percorso di sviluppo di idee imprenditoriali, sempre alla ricerca di nuove soluzioni.

«Il Design Thinking - affermano Ferretti e Girotti - insegna a gestire situazioni complesse e a dar forma a idee che garantiscano soluzioni win-win da un punto di vista olistico: serve a dare ordine alla complessità nel processo decisionale. Questo significa che si tengono in considerazione il punto di vista e le necessità di tutti gli “attori” coinvolti nel nuovo progetto imprenditoriale: la componente business, gli utenti che godranno del progetto una volta realizzato e la componente tecnologica necessaria alla sua realizzazione, senza cadere nell’errore di generare idee partendo da pre-concetti personali. Il Design Thinking è inoltre veicolatore di soluzioni innovative, che creino un reale nuovo valore in relazione al contesto di riferimento».

Una prospettiva che può avere ricadute interessanti anche per un mondo, come quello dell’università, in rapido cambiamento, alla ricerca di modalità di insegnamento e apprendimento sempre più efficaci, in grado di motivare gli studenti. L’approccio didattico di workshop basati sul Design Thinking implica infatti un diverso coinvolgimento delle persone. 

«Fedeli alla filosofia della prassi-teoria, noi chiediamo innanzitutto ai partecipanti di sporcarsi le mani. In inglese sarebbe “learning by doing” o ancora meglio nel nostro caso “learning by prototyping”. Combiniamo teoria, esempi ed esercizi, riuscendo a gestire i workshop in maniera agile, applicando quanto insegnato e raffinando le idee iniziali attraverso un processo iterativo. Questo avviene per esempio grazie alla realizzazione di prototipi grezzi che riescano, nella loro semplicità, a rendere un’idea testabile e facilmente migliorabile».

Una formazione che si costruisce come un prototipo o come un “prodotto” stampato in 3D può sembrare una prospettiva troppo avveniristica per le università. Ma è la sfida del futuro. Nel 2014 a Philadelphia, durante la prima conferenza mondiale “Reimagine Education” organizzata da QS, l’agenzia che stila uno più importanti ranking tra le università, sono stati assegnati gli Oscar dell’innovazione nell’Higher Education per premiare gli atenei che hanno implementato approcci pedagogici innovativi

«Il più efficace per gli studenti - concludono Ferretti e Girotti - resta quello “reale” anche nell’era 3.0: durante i nostri workshops, tendiamo a evitare lo sterile esercizio di formazione unilaterale, ma vogliamo che gli studenti facciano un’esperienza forte di coaching e co-working tesa alla creazione collaborativa di una cultura di innovazione».