Gianni Brera«Lo sport è semplicemente il Paese. Più che risanato, andrebbe reinventato. E allo stato attuale è perfino lecito dubitare che esista».

Parole affilate, quelle del grande giornalista sportivo nell’articolo scritto nel 1974 per Vita e Pensiero (fascicolo 4-5-6), ripubblicato 
per l’anno del centenario nel nuovo numero del bimestrale in uscita, disponibile nelle principali librerie italiane.




di Gianni Brera

«Che se tu offerissi a un che ciancia di sport il governo dispotico d’uno stadio, e quelli subito vi anderebbero a sedere» (parafrasi di ser Francesco Guicciardini). Lo sport italiano è una cara voglia, esattamente come la storia attiva, che non si può certo avere quando si è oggetti storici. Il sentimento, per solito, ci fa spropositare che sia una realtà: ma io mi vado sempre più convincendo che lo sia nella misura in cui l’Italia è nazione e soggetto storico. Ovviamente, è quasi ozioso ribadire che lo sport è un indice primario nella vita d’un Paese comunque moderno. Lo sport è mimesi edonistica o quasi sempre edonistica dell’attività umana.

Potrei aggiungere che è antico come l’uomo, che è stato appunto ludens in un particolare momento della sua evoluzione. Al concetto di sport si può solo arrivare in una società civile. Non sempre giocare è sportivo. Anche gli animali giocano, mimando essi medesimi la vita, e in particolare l’amore e la guerra: ma è dubbio che i loro giochi si uniformino a regolamentazione di sorta, sia pure schiettamente naturali. La differenza fra il gioco e lo sport è giusto il passaggio da un istinto ludico a una norma agonistica. 

Sport è parola inglese, come è universalmente noto: deriva dal francese antico se desporter e dall’italiano diporto, cioè togliersi fuori, svagarsi. Il concetto moderno di sport è solo inglese. In Inghilterra e non altrove ha assunto via via finalità che lo nobilitavano sotto l’aspetto culturale e sociale. Attraverso la pratica sportiva si educava divertendo e si procedeva alla selezione psicofisica dei quadri e dei soldati per una nazione allora egemone nel mondo. Il benessere degli inglesi era tale – rispetto agli altri Paesi – che banche, uffici, fabbriche sospendevano il lavoro a mezzogiorno del sabato: il week end o fine settimana era totalmente dedicato agli sport negli stadi o in aperta campagna.

Sussieghi britannici

Anche gli sport distinguevano socialmente, in Gran Bretagna (e il più plebeo era il calcio). I praticanti attivi guardavano con aperto disprezzo i supporters della pedata, il cui vero sport consisteva nel recarsi allo stadio, mangiare salsicce, bere birra e berciare a favore della propria squadra, ovviamente a dispetto dei suoi avversari.

Erano quelli i tempi in cui non veniva concesso agli operai di prendere parte a competizioni atletiche perché in pratica si allenavano all'esercizio agonistico lavorando in officina, dunque percependo compensi che li squalificavano come dilettanti! Il ragazzino bene incominciava a dilettarsi di cricket e conservava il suo amore a quel gioco, certamente noioso, quasi per una sfida ai molti che non lo potevano praticare studiando. Sedere sotto una pensilina qualsiasi (non sotto il tetto d’una tribuna calcistica!), tenere le mani guantate sul manico dell’ombrello diligentemente puntato fra i piedi, togliersi la bombetta quando una lady o un gentleman apparivano per prendere posto a lor volta, ammirare un buon colpo sussurrando a fior di labbra «well played, sir» era quanto di meglio potesse augurarsi un bennato suddito di Vittoria di Hannover. E dopo il cricket veniva il tennis, e ancora il rubgy, gioco violento per gentlemen leali; il calcio, quello era un bel gioco per gente cafona.

A Oxford e Cambridge bisognava avere solide braccia e solide tradizioni familiari per venir ammessi ai favolosi outriggers della regata: imitare i galeotti per divertirsi a soffrire in omaggio ai colori della varsity era ambizione che pochi pochissimi potevano soddisfare. Più facile, perché si pagava, giocare a lawn tennis; più rischioso fare equitazione, prendere parte a concorsi, a faticosi cross-countries, culminanti nella stagione giusta con favolose cacce alla volpe.

La caccia con il fucile era aristocratica e si poteva praticare sulle proprie terre, uccidendo animali grandi e piccoli allevati e protetti per quello scopo. La pesca d’altura sarebbe venuta con i veloci scafi a motore entro e fuori bordo; faceva fino invece pescare la trota e il salmone nei torrenti scozzesi e irlandesi, a patto che si applicasse il metodo prestigioso della mosca o si montasse un amo privo di ardiglione. In mare si andava per veleggiare e nuotare quando il clima non era proibitivo. 

Raccontare in un salotto di aver trucidato una lepre significava screditarsi agli occhi delle dame. Al massimo, era consentito riferire di rischiose cacce alla tigre o al leone, all'elefante o al coccodrillo, non all'antilope o alla gazzella, animali tanto gentili.

I safaries venivano consentiti ai signori “deportati” per necessità di carriera dall'amministrazione governativa e dall'esercito. L’uso di sfruttarli economicamente sarebbe diventato snob con l’avvento dei goffi milionari americani. Il tiro a volo apparve presto un indegno massacro per sadici della scommessa. Al pugilato si era voluto dare una definizione singolare (the Noble Art of Self Defense) per togliere senso di colpa e banalità ai guardoni con tutti i quarti in regola. Ben presto alle serate pugilistiche avrebbero preso parte in ring-side le modelle famose e i loro sponsors mondani: ma anche andare a vedersi picchiare era snob, cioè sine nobilitate. Le disquisizioni tecniche sarebbero servite ai furbi per giustificare fini assai meno nobili: l’ebbrezza del sadico, la scommessa o la semplice smania di farsi vedere.

I giochi di scommessa erano sopportati per autentico amor sui: il vizio del gioco era endemico negli inglesi; i poveri ci spilluzzicavano la mezza corona per la birra; i ricchi sostenevano gli allevamenti propri o degli amici, e lo facevano con la discrezione che la gente per bene impiega nel secondare le proprie debolezze. Tenere scuderia era ambizione di sovrani e di lords, di grossi industriali e di gentlemen farmers con pascoli adatti e buoni conti in banca. Poi sarebbero venute le corse di levrieri e ci avrebbero scommesso i patiti, le mezze calzette con pochi spiccioli in tasca. Padroni del mondo per potenza di uomini e di mezzi, gli inglesi ne dominavano dall’alto i mercati e influivano concretamente su tutte le civiltà antiche e nuove. 

Ora, un popolo conquista l’egemonia mondiale soltanto imponendo la propria cultura tecnica e spirituale. Se ci facciamo caso, non impieghiamo più che tanto a renderci conto che gli inglesi hanno inventato quasi tutte le forme e i mezzi della moderna esistenza civile, dalla ferrovia alla nave di acciaio, dal cognac (ma sì) alla bicicletta, dal fucile con cani interni al telaio meccanico, dalla racchetta del tennis allo sci alpino, dall’alpinismo al bridge e via enumerando benemerenze che furono anche privilegi concreti per le loro finanze e il loro tenore di vita. 

Volontarismi italici

Lo sport ha camminato per il mondo con il made in England (o in Great Britain) dei marchi di fabbrica. A fine Ottocento sono sorti anche in Italia i primi club sportivi. Ma di italiani che facessero sport ve n’erano pochi pochissimi. L’operaio italiano percepiva meno di una lira dopo aver lavorato quattordici ore al giorno. I borghesi erano pochi e non avevano schiena. Sport in senso nobile se ne faceva presso l’esercito, per dovere professionale (scherma, equitazione, corsa podistica). 

Aveva uno yacht il re e l’ammiraglio Persano, evento premonitore, l’aveva incagliato una volta nell’avviarsi a prendere il mare. Alla prima olimpiade moderna, celebrata ad Atene nel 1896, non venne ammesso il solo italiano che avrebbe voluto parteciparvi, il tipografo milanese Carletto Airoldi, perché una lettera anonima aveva preavvertito gli ellanodici che non era più dilettante: quel bieco profittatore dello sport aveva percepito un premio di lire due dopo aver corso il giro podistico di Rogoredo. Ad Atene, il Carletto Airoldi era andato a piedi, via Trieste e Ragusa. A piedi, umiliato, dovette rientrare. Adesso ne sorridiamo con doverosa pietà. 

L’episodio, a pensarci, è di agghiacciante squallore. Ma l’Italia era quella, che Dio ci perdoni e aiuti. Del resto, neppure in Inghilterra un valletto-lacchè Charly Harold avrebbe potuto gareggiare in riunioni a White City o dove era allora una maledetta pista di atletica; però vi imperversava lord Burghley, che un giorno avrebbe vinto l’olimpiade, e proprio a lui avrebbe opposto l’Italia un umile soffiatore di vetro che indubbiamente allenava i polmoni alla silicosi, non soltanto alla corsa, Luigi Facelli da Acqui, provincia di Alessandria. 

Da noi ci si stava ingegnando, proprio allora, a copiare le biciclette che producevano inglesi, tedeschi e francesi. La bicicletta avrebbe sveltito il ritmo di un popolo da secoli sonnolento e denutrito quanto basta a spiegare, se non a giustificare, quel suo lungo sonno. I giochi di un popolo immiserito e umiliato non sono mai allegri né tanto meno geniali. L’Italia era decaduta il giorno in cui, per sollecitazione più o meno diretta dei suoi dominatori, aveva smesso di inventare nuove forme di vita, dunque di lavorare per espandere la propria economia, non solo per sopravvivere.

Venendo meno il premio del lavoro creativo, anche il gioco perdeva necessità e fondamento morale. Chi si diverte, in certo modo esercita un diritto. L’uomo che non lavora per sé e per la propria comunità non è libero, né può nutrirsi quanto basta per conservare energie anche dopo il lavoro, cui viene costretto fino all’alienazione. Sono discorsi vecchi forse più di Marx, che pure ha intuito l’Entfremdung dell’operaio progressivamente portato a odiare il proprio ambiente, la fabbrica, i dirigenti, gli stessi compagni. Non scopro niente di nuovo né di sulfureo se rapporto i giochi al lavoro, la voglia di starnazzare e divertirsi a quel plus-calorico di cui ovviamente non ha parlato neppure Marx. Il diritto allo sport è venuto quando il primo dovere è stato onorato: la conquista più o meno compiuta della libertà dal bisogno.

E quando mai gli italiani si sono liberati dalla fame, non meno endemica in loro della guerra civile? Più che un piacere, uno svago, lo sport è stato rude volontarismo, in Italia. E il volontarismo nasceva dalla necessità. Luigi Facelli penava assai a soffiare vetro ma rischiava l’aneurisma per reggere alle fatiche agonistiche, dalle quali solo poteva sperare di migliorare la propria esistenza. Nelle partecipazioni italiane ai grandi eventi sportivi, massime all’olimpiade, c’è sempre stato questo equivoco sociale. I ricchi dirigevano; i poveri ci davano dentro. La qualità proletaria del Paese era puntualmente rappresentata anche nelle estrinsecazioni sportive. Quando Eberardo Pavesi, nato e cresciuto a Milano, ha preso parte al giro ciclistico di Francia, per dannatissima fame arraffava i rifornimenti sui tavoli altrui. Un giorno ha agguantato una banana e ha preso a masticarla senza toglierne la buccia: non aveva mai visto un frutto simile.

Trattandosi d’un equivoco sociale, perdurante nel tempo, sulle imprese dei poveri si è sempre insistito in modo ambiguo, talora deformandole di netto. La più bolsa retorica ha sollevato Dorando Pietri ad altezze fasulle. Il suo finale di Maratona ha riecheggiato il dramma di Filippide per sadomasochistica voglia degli inviati speciali. Una vittima italiana andava benissimo, al diavolo se Pietri era già stato in coma ad Atene per uso eccessivo di stricnina (ergogenia medicamentosa in italiano; in olandese, dooping).

Dopo Pietri non abbiamo più avuto grandi protagonisti nelle corse lunghe. Chiamati agli allenamenti collegiali, i poveri puzzapiedi del podismo stradaiolo conoscevano finalmente la bistecca e se ne avvelenavano con ardore: per quanto poi scarpinassero, il loro peso aumentava fino a mortificarli; e per non venir accusati di lazzaronaggine si impegnavano tanto da stroncarsi! All’olimpiade portavamo così ectoplasmi di atleti. Qualcosa di simile accadeva in quasi tutti gli sport, non esclusi i distinti, i signorili. La lustra dilettantistica era di puro accatto e si vedeva. L’evoluzione sportiva era forzata: parlare di volontarismo è già dar prova di carità di patria. 

Il plus-calorie era pur sempre un castigo del buon Dio (o un’ingiustizia sociale?). Prova a ereditare fame per due millenni e vedi se basta la bistecca improvvisa a fare di te uno specimen rispettabile. Qualche sopravvivenza gagliarda si scopre qua e là nella spaventosa giungla etnica che noi siamo. Emilio Lunghi incanta per come corre, per quanto è bello e per quanto ignora di tattica. Lo chiamano l’uomo-cavallo. Agli stessi Giochi di Londra, il marinaio milanese Pietro Porro deve farsi prestare una maglietta da un finlandese se vuol disputare la finale.

Siamo ancora mendicanti a Stoccolma, nonostante vi eccella Nedo Nadi. Carlo Speroni ripete Pietri in meglio: cade abbastanza lontano dal traguardo per non eccitare gli scribi. Nel dopoguerra, avendo scelto la parte giusta, vinciamo qualche titolo francescano (la marcia, la boxe, la lotta). Torna da Amsterdam Lando Ferretti – statura metri 1,61 – e giustifica il fallimento dello sport fascista dicendo a Mussolini che è «questione di razza». Il maestro elementare di Predappio non sa ancora nulla di Mein Kampf e prende atto. Intanto però ha capito che lo sport è indicativo di uno status culturale e l’addita a sfogo della jattanza che lui stesso predica al mondo (fo per dire). L’ambizione ad eccellere induce i dirigenti a schiumare il vivaio etnico con applicazione mai vista. La situazione è disastrosa. Un popolo di dismorfi ci esibisce quanto gli resta del gran massacro sofferto dai migliori. 

Bei figlioli, comunque, se ne trovano. Zone etniche privilegiate si scoprono nelle Venezie, in Padania e in Toscana. Ma gli specimina di valore internazionale sono così pochi da indurre i tecnici a spremerli per anni, dunque a farne dei veri e propri professionisti. Ho citato Facelli: la lista non è breve ma neppur tanto lunga da inorgoglire. Il campione in potenza viene sgrommato a fatica dalle tare che lo nascondono. Ovviamente, fa molto più la preparazione che la stoffa etnica. E per prepararsi occorrono anni: il solo modo per distinguersi è onorare la tecnica. Atleti naturali quasi non se ne vedono.

Negli anni Trenta conseguiamo risultati che fanno gridare allo scandalo. Abbiamo inventato noi il Dilettantismo di Stato. Lo praticano gli americani a livello di college (uno dei popoli meno sportivi al mondo è l’americano): mandano talent scouts ai campionatini dell’high school e incettano negri che mai studierebbero, se non fossero bravi a correre e saltare. Noi abbiamo la «Rapallo troupe» per l’atletica. Alla scherma dedichiamo l’intero esercito, e ancora i maestri. Se nel calcio esitiamo a emergere, induciamo gli italiani del Sud America a reimmigrare per somme astronomiche (otto mila al mese per Orsi, quando mia sorella maestra a Milano ne percepiva trecentoquaranta): e vinciamo due campionati del mondo e un’olimpiade.

Naturalmente, ci illuminiamo di immenso. Non v’è agonismo di poveri che non esalti il nostro orgoglio. Perfino il ciclismo giova, singolare sport di arrotini. Nei Paesi ricchi è ignorato: la polvere e l’acre sudore plebeo si addicono ai nostri giganti della strada. Quando scoppia la guerra, l’equivoco si dilata alle Forze armate. Ahimé, che diversa musica. La nazione prostrata per la demenza di pochi (uno solo non basta). E quando l’uragano finisce ci accorgiamo di esistere solo per la fame che ci attanaglia e per i professionisti sportivi che tornano a darci dentro. Sono estasi brevi, di quelle che si lasciano ai poveretti senza altro sfogo.

I resti del volontarismo fascista ci rappresentano straniti all’olimpiade. Consolini è rimasto; e pochissimi altri. Ma le leve sono impossibili, se non frettolose e incomplete. Siamo di nuovo affamati e stortignaccoli. Chi parla di ideali olimpici viene additato al pubblico disprezzo. Lo sport è regolamentato e retto dal Coni, miracolosa se non proprio felice sopravvivenza fascista. E per fortuna viene sottratto ai ricorrenti flussi e riflussi della politica, altrimenti cambierebbero ogni sei mesi anche i custodi dei gabinetti negli stadi. Il compromesso riposa sui proventi del Totocalcio. In pratica, eleggiamo un presidente che al momento stesso della nomina diviene funzionario di Stato (e non di grado altissimo). Organizziamo un’olimpiade imponendo a Roma nuovissimi colossei; ancora oggi dobbiamo gestirli con i nostri quattrini: il comune di Roma non vuol saperne di altri debiti.

Contromarca Italia

Intanto, la ricerca e la selezione dei meno brutti fra noi diventa ogni giorno più problematica. Un tempo si poteva anche parlare di sport come dovere sociale (nel senso di giovare al prestigio della patria). Adesso è puro sfizio o nevrosi. Le fanfaluche rimasticate sulla scuola sono tali anche per chi le ha incominciate or sono trent’anni. Non è vero che mancano gli impianti: ce n’è fin troppi. È vero invece che pretendere impianti per ogni scoletta è puro imbroglio verbale. Hanno perfettamente ragione le madri di ribellarsi alle bronchiti e alle polmoniti dei redi: se fai correre e sudare un bambino, poi lo devi lavare e asciugare; se non hai docce né piscine, accontentati di tenerlo passibilmente sano, non pretendere di evitargli la scoliosi rovinandogli i polmoni. 

Più impellente sarebbe la necessità di prendere in consegna gli adolescenti e regolarne gli estri genesici traverso l’educazione sportiva: magari prima a parole, poi a fatti (e sempre se hai i mezzi igienici per non inguaiare). Ma sognare che tutto si rinnovi d’incanto è almeno cretino come accusare lo Stato, questo ignotissimo e perciò incolpevole moloch, di negare sport ai cittadini.

Ho pure detto come stanno le cose. Senza volontarismo, inutile pretendere; senza ricompense, inutile sperare. Lo sport è semplicemente il Paese. Più che risanato, andrebbe reinventato. E allo stato attuale è perfino lecito dubitare che esista. Giusto, anzi ammirevole che se ne parli e anch’io – ecco qua – voglio esser benemerito. Una volta definita l’idea, eh, una volta definita per il meglio... Intanto, bene o male, ci creiamo un’attesa: e forse, chissà?, viviamo.