«I sistemi autoritari sono più in difficoltà dei sistemi democratici». Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica (Aseri) e ordinario di Relazioni Internazionali nella facoltà di Scienze Politiche e Sociali, commenta così la “voglia di cambiamento” che sta inondano le strade della Bielorussia. Dopo 26 anni di potere ininterrotto, la popolazione è scesa in piazza per porre fine al regime di Aleksandr Lukashenko, accusato di aver truccato i risultati elettorali dello scorso 9 agosto.
Professor Parsi, che cosa sta succedendo in Bielorussia? È la fine di una dittatura? «Tutti i sistemi politici, democratici e non democratici, stanno riscontrando, non da oggi, importanti problemi di rappresentanza, o meglio di rappresentatività. Questo perché fanno fatica a rassicurare gli elettori su due elementi fondamentali: uno, è la possibilità di decidere del proprio futuro, l’altro, è garantire aspettative di vita dal punto di vista economico non drasticamente declinanti. Nei sistemi autoritari non esiste quella sorta di funzione di decantazione e compensazione istituzionalizzata del conflitto di interessi e prospettive che, più o meno bene, nelle democrazie viene assolta dai Parlamenti e dal libero dibattito pubblico. Nel caso della Bielorussia, dopo sei mandati consecutivi, Lukashenko ha difficoltà specifiche in parte dovute al fatto che invecchia, e come tutti i leader che invecchiano rassicura sempre meno il suo entourage sulla capacità di perpetuarne privilegi e vantaggi; d’altra parte, nel corso degli ultimi mesi, ha cercato di smarcarsi rispetto a Putin e questo, paradossalmente, l’ha fatto percepire come più isolato, dando chiaramente forza a quella parte maggioritaria dell’opinione pubblica. Che sogna di scalzarlo dal potere. Non dobbiamo poi dimenticare che spesso l’innesco di fenomeni anche profondi di malcontento, con i conseguenti tentativi di cambiamento, può essere casuale. Ricordatevi come scoppiò la prima rivoluzione araba nel 2010, con la Tunisia che diede fuoco alle polveri dell’intero Medio Oriente allargato: tutto partì dal gesto di un venditore ambulante che, esasperato dall’ennesimo “pizzo” richiesto da un poliziotto corrotto, si diede fuoco per protesta. Ricordatevi cosa è successo anche in altri contesti in Europa negli anni passati. Questo non vuol dire che il processo di cambiamento andrà necessariamente a buon fine, però l’innesco può essere casuale quando siamo di fronte a regimi che sono caratterizzati da difficoltà strutturali.
Mentre a Minsk la popolazione scende in piazza contro Lukashenko, la Russia è nell’occhio del ciclone per un presunto avvelenamento dell’attivista Aleksej Navalny. C’è un collegamento tra i due avvenimenti? «L’influenza russa nella regione e nelle ex repubbliche sovietiche è forte e continua a esserlo. Ciò è associato alla difficoltà che ha il Cremlino ad accettare che i suoi vicini si autodeterminino quando la sua influenza incontra limiti o declina. L’altro elemento di collegamento forte tra le due vicende è quello che ci ricorda come il Cremlino sia un attore estremamente cinico nel giocare le sue carte, disposto a compiere anche grossolane violazioni delle leggi internazionali e dei principi etici se ritiene tali violazioni necessarie al conseguimento dei suoi interessi. Ora è vero che siamo in un momento in cui anche le democrazie, a cominciare dagli Stati Uniti, presentano difficoltà interne e un atteggiamento di politica estera sempre più sindacabile. Però, i russi hanno il record mondiale nell’eliminazione fisica degli oppositori politici e questo vale sin dai tempi dell’Unione sovietica e va avanti con il regime putiniano. I russi ci stanno confermando che, se è necessario, saranno disposti a far salire il livello dello scontro in Bielorussia e a intervenire militarmente. Sanno che l’escalation è il terreno che dominano meglio, mentre per noi proprio l’escalation è la fase più complicata: fatto salvo che la politica è il regno degli errori di calcolo, delle previsioni sbagliate, delle conseguenze non volute, per cui anche per il Cremlino c’è sempre il rischio di commettere un errore di valutazione di fare una volta o l’altra il passo più lungo della gamba, che abbia anche possibili indesiderate ricadute interne».
Bernard-Henri Lévy su la Repubblica ha scritto che quella della Bielorussia è l’ultima scossa di assestamento di quel terremoto che fu la caduta del Muro del Berlin. È così? «Mi pare che questa previsione sia piuttosto ottimistica oltre che, come spesso gli succede, campata in aria. D’altra parte Lévy è in buona compagnia: i media americani hanno definito Lukashenko l’ultimo dei dittatori d’Europa. Dire che i sistemi autoritari hanno difficoltà tanto quanto i sistemi democratici non significa che ci sia una loro ritirata. Tutt’altro. Abbiamo avuto semmai un ammaloramento delle democrazie, e la Turchia è il caso più eclatante».
In tutto questo l’Europa sta a guardare? «L’Europa fa quello che può nel senso che deve evitare di fornire pretesti ai russi per un più deciso e diretto intervento in Bielorussia, perché se si va verso l’escalation è più difficile per noi competere. Bisogna saper riconoscere che l’arma delle sanzioni in un’economia internazionale profondamente in crisi e in una dimensione di commercio internazionale in forte contrazione non è la più efficace. Ma occorre anche essere consapevoli che il tempo gioca dalla nostra parte. Sul lungo periodo la Russia, non meno dei paesi del Golfo, avrà un problema di eccessiva dipendenza dagli idrocarburi fossili che nei prossimi vent’anni sono destinati a vedere ridotta la loro rilevanza. Ciò innanzitutto a seguito della cresciuta consapevolezza della questione del riscaldamento globale e poi in conseguenza di quanto è successo in questo periodo: siamo di fronte a una discontinuità economica di ampio respiro, strutturale direi. Il paradosso è che l’Europa – che è sicuramente piuttosto fragile in questo momento, alle prese con una gigantesca “sfida” di transizione legata alle conseguenze del Covid e alla deglobalizzazione parziale dell’economia mondiale – è anche quella messa meglio per affrontare una trasformazione importante delle fonti energetiche e dei processi produttivi. Insomma, l’Europa sta facendo quello che riesce a fare e che secondo me deve fare bene: con fermezza e con cautela, perché il tempo, nonostante le apparenze e la retorica, è dalla parte dell’Unione».
Joe Biden ha detto che se vincerà le elezioni non farà sconti a dittatori e despoti. Qualora diventasse presidente degli Stati Uniti ci saranno ripercussioni sul fronte internazionale? «Se Biden dovesse vincere le elezioni – cosa auspicabile, possibile, probabile ma non certa – è legittimo attendersi un raddrizzamento della rotta rispetto alla politica trumpiana. Ma non dimentichiamoci che Trump giocherà le sue carte e sta dimostrando di essere disposto a tutto pur di non rischiare di perdere, con conseguenze che potrebbero persino portarlo a dover affrontare il processo e la detenzione per una lunga serie di capi di imputazione, una volta che non fosse più protetto dall’immunità presidenziale. Detto ciò, credo che Biden si giocherà la partita soprattutto in termini di politica interna e, come spesso capita per gli Stati Uniti, questo potrà avere conseguenze anche in chiave di politica estera. Sempre nella consapevolezza che dall’Egitto al Golfo, dalla Cina all’Africa il mondo è pieno di regimi autoritari e dispotici. Quello che è cambiato rispetto a vent’anni fa è l’aumento dei sistemi sultanistici, dei dispotismi personali che, un po’ come avviene da noi con i partiti personali, rendono sempre più ardui gli spazi di mediazione e le possibilità di stabili convergenze, perché l’elemento personale esalta la dimensione “pura” del potere e dell’arbitrio».
Quale potrebbe essere la via d’uscita per la Bielorussia per evitare escalation? «Da un lato, va chiarito in maniera molto franca ai russi che se spostano il gioco sul campo militare questo avrà conseguenze permanenti e durature nei rapporti con Mosca; dall’altro, che non siamo interessati a una membership della Bielorussia nell’Unione, men che meno nella Nato o a spostare la Bielorussia da un’area di rispetto per gli interessi russi. Una strada potrebbe essere quella della “finlandizzazione”, come si diceva durante la Guerra fredda. La Finlandia era un paese a tutti gli effetti democratico internamente, con una condizione elettorale libera, libera stampa, un’economia social-democratica indistinguibile da quella degli stati vicini, ma di neutralità collaterale nei confronti della Russia: ovvero che strutturalmente era allineata alla Russia in politica internazionale, pur restando neutrale. Una prospettiva di “finlandizzazione” potrebbe consentire una sostanziale evoluzione del regime in senso democratico e contemporaneamente rassicurare le esigenze russe che tale evoluzione non riduca la profondità strategica che il Cremlino ritiene di avere bisogno nei confronti dell’Occidente. Certo c’è il terzo incomodo: Lukashenko. Un sistema come quello bielorusso, proprio per i tratti personalistici e sultanistici che caratterizzano il regime, può evolvere solo a condizione che l’incognita Lukashenko non faccia più parte dell’equazione. Su questo forse i russi potrebbero essere d’aiuto, se si convincessero che una Bielorussia democratica non costituirebbe automaticamente una minaccia per loro».