«Prima ero come un soldato privo delle armi per combattere. Ora, invece, possiedo strumenti e strategie all’avanguardia». Tra il prima e il dopo c’è l’esperienza al master Mba in Mercati globali e sostenibilità dell’Università Cattolica di Milano. Hesbon Achola, keniota di 33 anni, si racconta. Ha un passato da ragazzo dei quartieri poveri di Nairobi, e un presente da direttore del Maef, un progetto di imprenditoria sociale per finanziare, istruire e mettere in rete i piccoli agricoltori del suo Paese.

La trasformazione è avvenuta in Italia nel 2009. L’idea di un progetto per rilanciare l’agricoltura del Kenya – sempre più in crisi per la fuga dei contadini verso le città, dove cercano fortuna ma trovano miseria – è nata nella aule della Cattolica. Ma arrivarci, e poter frequentare un anno di corsi, ricerche e tirocini, in contatto con le imprese italiane più avanzate nel campo del management responsabile, per Hesbon non è stato facile.

«Ricordo il giorno dell’ottobre 2008 in cui un professore dell’Università Cattolica dell’Africa Orientale, dove mi ero da poco laureato, mi convocò. Non avevo idea di cosa volesse chiedermi», racconta Hesbon, che dopo la laurea aveva cominciato a lavorare come operatore umanitario nelle periferie di Nairobi, dove è nato e cresciuto. La proposta del professor Ndegwa gli avrebbe permesso di fare il salto di qualità. «Mi parlò della possibilità di frequentare l’Mba all’Altis, l’Alta scuola impresa e società della Cattolica di Milano. Andammo a visitare il sito del master e rimasi a bocca aperta: era esattamente ciò a cui aspiravo, lo strumento che mi avrebbe permesso di acquisire le competenze per far fronte a problemi e domande che incontravo ogni giorno sul lavoro. Era un privilegio, un’opportunità di crescita professionale che non potevo lasciarmi scappare».

I soldi per il biglietto aereo, però, non ci sono. «Dissì di sì prima ancora di sapere come avrei fatto a comprare il biglietto – ricorda –. Poi i miei amici, felici di sostenermi, organizzarono una raccolta di fondi e riuscimmo a mettere insieme la somma necessaria». Con gli esami attitudinali, invece, Hesbon non ha problemi: supera il test di economia G-mat, criterio di ammissione per le più importanti facoltà economiche del mondo. «Raccogliere tutti i documenti per partire, poi, è stata una corsa a ostacoli. Quando ho avuto in mano le carte richieste e il passaporto, mi sono detto: ci siamo».

Arrivato in Italia, Hesbon sa di avere una grande opportunità, e tiene occhi e orecchie ben aperti. «L’Mba è stato uno strumento per rivolgere lo sguardo al mondo e al mio lavoro», dice. Lavorare fianco a fianco con colleghi provenienti da tredici diversi Paesi, «sperimentare una biodiversità culturale come mai mi era capitato prima, conoscere la vita italiana grazie alla famiglia che mi ha ospitato, sono state esperienze che mi hanno formato come persona. Mantengo ancora i contatti con molti colleghi e professori, e posso dire che hanno dato un contributo essenziale alla mia crescita». La maturità, poi, arriva anche dal punto di vista professionale: «Se oggi mi sento sicuro anche come manager, e non sento più in me la povertà che percepivo prima, è grazie al periodo che ho trascorso in Italia. I corsi e gli incontri all’Mba – continua Hesbon – mi hanno trasformato in un imprenditore consapevole, pronto a sostenere le sfide di uno sviluppo sociale e di un’economia sostenibile anche in un Paese come il Kenya».

Hesbon, dunque, studia a Milano, ma con la testa è ancora (o già) nel suo Paese: è al Kenya che pensa quando apprende modelli economici e imprenditoriali. Pensa a uno stato che soffre ancora di deficit alimentare, che vive di agricoltura, ma un’agricoltura «arretrata e disorganizzata, che non permette ai contadini di vivere dignitosamente». I coltivatori, così, abbandonano le campagne per le città, dove però trovano periferie povere e disoccupazione. Ecco perché l’economia del Paese è bloccata: «L’insieme di analfabetismo, miseria e urbanizzazione rallentano la produttività». Hesbon immagina un Kenya diverso, e capisce che la via d’uscita passa per il sostegno del settore agricolo: bisogna ripartire da lì, da un mondo disgregato ma che raccoglie ancora l’80% della popolazione.

«La svolta avvenne il giorno in cui visitammo con l’Università un agriturismo fuori Milano, Cascina Caremma: lì scattò la scintilla, lì elaborai il progetto da esportare nel mio Paese». Nei mesi successivi, con i professori in Italia e con il suo team una volta tornato in patria, Hesbon riflette su come immergere nel contesto keniota il modello dell’azienda agricola che fa business rispettando il territorio e riscoprendone le tradizioni; riflette su come farne uno strumento di sviluppo sociale, di contrasto alla miseria.

Il risultato è un progetto che trova subito i finanziamenti necessari e che parte nell’estate 2010. Il Maef – questo il nome del progetto, acronimo di Mazao agribusiness and educational farm –, si inscrive nel mondo delle Community based organizations, le organizzazioni di base, ovvero società non profit che operano in comunità locali. Si occupa di formazione, finanziamento e inserimento sui mercati degli agricoltori di piccola scala; creazione di un network di aziende che condividano tecniche e obiettivi; ricerca in campo agronomico e ortofrutticolo, in stretto contatto con strutture tecnologicamente avanzate di tutto il mondo; sostegno delle politiche locali che mostrano attenzione allo sviluppo, agricolo e non, del Paese. Il fine ultimo? Rendere gli agricoltori capaci e indipendenti, per far camminare da solo il settore agricolo, e diffondere la cultura della sicurezza alimentare, allontanando il rischio che alla povertà si unisca la malattia.

«Ci occupiamo di formare i piccoli agricoltori – spiega il fondatore –, che lavorano sodo ma spesso non hanno i mezzi, le tecniche o le nozioni economiche di base necessari per essere competitivi sul mercato». Ad organizzare training per i contadini, Hesbon e i suoi hanno cominciato prima ancora di avere i finanziamenti. Nel settembre 2010 hanno inaugurato a Kiserian, città poco più a sud di Nairobi, la loro sede, centro operativo e punto di ritrovo per i corsi. Poi è stata la volta delle prime piantagioni di pomodori. Del network fanno parte oggi 20 agricoltori, di cui 11 donne. Coltivano ortaggi e allevano pollame e conigli: le loro attività, avviate o ristrutturate in forme e mezzi, sono state introdotte sul mercato del Paese, dove i coltivatori si muoveranno da soli, con il supporto della rete alle spalle.

«Siamo nati da pochi mesi, e quindi consideriamo questi numeri già un buon risultato – dice Hesbon –, ma dobbiamo ancora farci conoscere e allargare la rete. Per ora diamo lavoro a tempo pieno a 10 persone che coordinano il network, l’obiettivo è però impiegarne molte di più». Sono due i settori su cui la comunità che cresce intorno a Hesbon sta puntando: il biologico, sempre più richiesto non solo sui mercati ricchi ma anche in Kenya, dove «è cresciuto di recente del 20%, e dove il 40% dei consumatori lo richiede anche solo occasionalmente»; e le carni bianche, di cui cresce la domanda in tutto il mondo.

Per raggiungere i loro obiettivi, Hesbon e i suoi hanno dunque scommesso su nicchie del mercato promettenti, concentrando i propri sforzi. Non possono permettersi di disperdere energie. L’esperienza e i modelli italiani vivono, grazie a Hesbon, nelle piantagioni e nella voglia di riscatto delle comunità keniote. «Non ci resta che sperare – conclude con un sorriso che guarda al futuro – di rispondere in fretta ai bisogni del nostro Paese. Poi potremo pensare di esportare i nostri prodotti, magari anche in Italia».