Fare inchiesta vuol dire squarciare il silenzio su ciò che non si è mai visto, osservare le cose da un altro punto di vista, provare a smuovere le coscienze. È questo il messaggio della seconda edizione della Winter School sul videogiornalismo d’inchiesta organizzata da Almed, dal 15 al 18 febbraio. Una carrellata di professionisti del settore che hanno svelato le tecniche del mestiere con quaranta fra giornalisti, videomaker e freelance a lasciarsi interrogare dai lavori dei giornalisti-docenti: come trovare una fonte? Come gestire un’intervista complessa? In che modo adattare il linguaggio al prodotto che si sta costruendo? A chi lo si può vendere?

Le risposte sono toccate ai volti più esperti delle trasmissioni d’inchiesta televisiva italiana e ai rappresentanti delle case di produzione sul mercato più coraggiose. Come Emanuele Piano di Oibo Productions, casa di produzione indipendente con sede a Roma che negli anni è cresciuta operando all’estero, ed è partita raccontando il Darfur. Il consiglio e l’esperienza di Piano è quello di scovare quella fetta di mercato rimasta inesplorata. Esiste in Italia un programma di approfondimento che parla di esteri? No, ma l’alternativa c’è: raccontare l’Italia all’estero. «Questo spirito imprenditoriale – dice Piano – comporta per definizione dei rischi, ma ti permette di entrare in un mercato ignorato dove tu potresti essere l’avanguardia. Se nessuno ha ancora raccontato qualcosa, devi essere tu a giocare d’anticipo».

Maurizio Torrealta, storico giornalista della Rai, oggi a Rainews24, ha approfondito l’elemento più sensibile e importante dell’inchiesta: la fonte. Ecco la sua ricetta: «If your mother tells you that she loves you, check it out. È così che dicono alla “Columbian School of Journalism” perché, prima di coinvolgere una fonte, devi avere la certezza assoluta che sia autentica».

Uno degli ospiti più attesi era Domenico Iannaccone, giornalista Rai di Presa Diretta. E il reporter non si è affatto risparmiato, soprattutto parlando dell’umanità che il lavoro d’inchiesta dovrebbe prevedere. Il giornalista “d’assalto” non deve avere paura di mettere i suoi sentimenti nel racconto e questo deve trasparire per evitare l’omologazione dei temi trattati. «Se è vero che l’inchiesta deve smuovere le coscienze, il primo a guardare in modo diverso i fatti deve essere proprio chi li racconta». Il cambiamento di prospettiva, inoltre, comprende l’umanità delle cose: l’inchiesta deve essere un incrocio tra numeri e anima.

Un altro collega Rai, della scuola di Report, è Alberto Nerazzini, che ha scomposto e rimontato tutti i passaggi necessari a un’intervista che, “fanno” il personaggio intervistato, come lui stesso dimostra con il suo lavoro. L’intervista può arrivare a creare la notizia, nel momento in cui si riescono ad afferrare tic, movimenti, pensieri e caratteristiche inediti del personaggio di turno. «Ma per scavare a fondo e far venire fuori l’umanità e le debolezze o anche la forza di chi stai intervistando c’è un solo segreto: conoscere il più possibile chi ti sta davanti». Il segreto, per Nerazzini, è l’empatia. Solo così è permesso arrivare oltre la domanda.

Osvaldo Verri, storico autore de Le Iene, ha fatto luce sull’utilizzo della camera nascosta, pratica usata ormai da molti giornalisti. Le scuole di pensiero sono diverse e c’è chi sconsiglia l’uso di questo metodo. Ma per Verri ci sono situazioni in cui è indispensabile usarla, pena l’impossibilità di portare a termine l’inchiesta. «La telecamera nascosta rimane l’unico modo per farci conoscere la realtà, per tutelare le fonti e per intrufolarsi dove nessuno ti farebbe entrare». Un Machiavelli applicato al giornalismo.

Amedeo Ricucci, giornalista Rai di La storia siamo noi, ha poi analizzato il tema del vero e del falso in tv. «La telecamera è un’arma nelle mani del giornalista», ha detto, ma è lui stesso che decide in maniera soggettiva chi, cosa e come riprendere per raccontare. «La riproduzione del reale con la telecamera implica sempre una riduzione del reale» dice Ricucci, che alcuni anni fa ha rischiato la vita a Ramallah.

Altra pietra angolare del programma Rai Report è Sabrina Giannini. «Il lavoro investigativo del giornalista serve spesso come spinta per la magistratura affinché indaghi su un fatto». Questa funzione, secondo la reporter, va tutelata perché il vero differenziale che rende un’inchiesta utile al bene comune è smuovere situazioni statiche e irrisolte.

Non manca chi ha spiegato ai partecipanti se c’è un modo per vedere realizzato il proprio lavoro sugli schermi. Current Tv, attraverso Stefano Di Taranto, dice che è possibile. Promuovere le proprie inchieste, cercando dei parametri interessanti di approfondimento nel modello di giornalismo partecipativo voluto da Al Gore si può. La parola d’ordine è mercato globale. E produrre per raccontare quello che gli altri non dicono.