Per avere 25 anni Pasquale Ancona ha le idee fin troppo chiare sul suo futuro e sul futuro del giornalismo. Aveva 17 anni quando la scintilla, se non il sacro fuoco di fare il giornalista ha acceso i suoi desideri. Dal giornale scolastico alle testate locali della sua Fasano (Br) fino al periodico dell’università è stato tutto un votarsi alla scrittura e, soprattutto, allo sforzo di fare domande, porsi questioni e cercare un perché. Un viaggio, ancorché breve, che dopo un percorso di studi in Lettere e Giornalismo, l’ha portato nell’anno in corso a iscriversi al master biennale in Giornalismo dell’Università Cattolica e, proprio a quarant’anni della barbara uccisione, a vincere il premio intitolato alla memoria di Walter Tobagi.

«Non nascondo che era una cosa cui tenevo tanto» racconta Pasquale. «Quello che ho scritto rappresenta l’oggetto dei miei studi: il concetto di modello di business è uno di quelli che per me è pane quotidiano. Il mio elaborato per il premio Tobagi vive di questo mio interesse, che va in parallelo con i miei studi. Nell’articolo affronto il giornalismo d’inchiesta come valore aggiunto sia dal punto di vista qualitativo che da quello economico». Un giornalismo d’inchiesta all’americana, basato prima di tutto sui documenti e sui fatti. 

Nel tuo elaborato paragoni l’informazione al dio Giano della mitologia latina. Perché? «Anche il giornalismo ha due facce come Giano, una che guarda al futuro, l’altra che non deve mai perdere di vista il passato. Usare il metodo di ieri sfruttando gli strumenti di oggi è il segreto per fare giornali sostenibili, che mettano insieme la qualità dell’informazione con la capacità di reggersi economicamente».

Hai un modello in testa? «Sì, nel mio elaborato racconto il caso del The Atlantic, un mensile cartaceo americano che ha una storia gloriosa ultracentenaria ma che ha saputo innovarsi anche nel digitale».

Come? «Facendo leva sul giornalismo d’inchiesta raccoglie un numero di abbonati incredibile che gli permette di sostenersi economicamente. O, meglio, più che abbonati, sono membership, persone che si confrontano con la redazione e contribuiscono attivamente alla vita dell’informazione».

Un modello da seguire… «Fare del giornalismo d’inchiesta e dell’approfondimento la chiave di volta ha stimolato la fiducia dei lettori. Per esempio nel corso dell’emergenza Coronavirus, il giornale ha tolto il paywall sulle notizie relative alla pandemia, col risultato non solo di totalizzare 87 milioni di accessi unici e 168 milioni di visualizzazioni di pagina nel solo mese di marzo ma anche un incremento di 38 mila abbonamenti annuali».

È una questione, immagino, che tocca anche il tuo futuro… «All’affermazione che tutti mi fanno quando dico che voglio fare il giornalista: “Ma chi te lo fa fare? Non si campa”, replico approfondendo la questione dei modelli di business dei giornali per dare risposte concrete».

Che modelli hai in testa? «Credo molto nei giornali digitali anche se sono legato alla carta. E cerco di approfondire i modelli di giornalismo digitale che riescono, oltre che a sopravvivere, anche a fare un giornalismo che può veramente dirsi tale. Le vere inchieste sono quelle che fanno la differenza e sono quelle che nella mia tesi di laurea sulla Bbc ho definito “funzione democratica dell’informazione”».

Come si collega il tuo elaborato alla figura di Walter Tobagi? «Ho scelto di andare un po’ controcorrente, perché ho deciso di non parlare direttamente di lui ma di prendere il suo modello di inchiesta, per mezzo del quale è riuscito ad approfondire il terrorismo degli anni ’70, e tenerlo come faro per illuminare il giornalismo di domani alle prese con il problema dell’editoria. È un inno all’immortalità di un modo di fare inchiesta».

Mi sembra superfluo chiederti come immagini il tuo futuro… «È da quando avevo 16, 17 anni che ho deciso di fare il giornalista. Sono uno di quei fortunati che ha avuto un’idea e si è intestardito nell'inseguirla. E poi la fortuna di poter frequentare la Scuola di giornalismo della Cattolica, che era il mio sogno da quando ho capito quale dovesse essere la mia strada». 

Perché proprio la Cattolica? «È questione di marketing. Quando ho visto il video di presentazione che c’è sul sito, che ho visto una prima volta mentre ero al lavoro, ho deciso che avrei scelto questa Scuola. Sono molto riflessivo sullo studio ma quando devo prendere una decisione lo faccio senza tentennare».

Che cosa pensi di fare finita la Scuola? «Studio proprio per capire cosa posso immaginarmi per domani. E so che non devo precludermi nessun tipo di possibilità, anche perché il mondo del giornalismo continua a cambiare. Cerco di anticipare il cambiamento e pormi in maniera proattiva».