Una pandemia non l'aspettava sicuramente nessuno. Nemmeno, per quanto sempre pronti e educati, nelle aule e in tirocinio, a prepararsi a ogni “allerta”, i medici più giovani, particolarmente i neolaureati, in questa emergenza direttamente “in campo”. Abbiamo raccolto alcune delle loro storie


È stata definita una trincea. È quella composta dai reparti Covid e dai medici che sono stati impegnati in uno sforza a tratti eroico nella lotta al Coronavirus. Ma in prima linea non ci sono stati solo loro. C’erano anche tutti i loro colleghi che hanno dovuto modificare il proprio approccio clinico a causa dell’emergenza sanitaria. Così è stato, per esempio, nell’Unità operativa complessa di Radioterapia oncologica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs, diretta dal professor Vincenzo Valentini, docente di Diagnostica per immagini e Radioterapia all'Università Cattolica.

Francesco Beghella Bartoli, medico specialista in Radioterapia oncologica con contratto di collaborazione come libero professionista con la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli Irccs, lavora nel settore operativo del Gemelli Art.

«Oggi, essere medici in un mondo in cui le relazioni umane vengono a essere giustamente limitate, risultando spesso vettori di paura e diffidenza, appare più che mai essere una sfida» afferma. «Da radioterapista oncologo cerco sempre di accogliere i pazienti, già provati da una diagnosi a volte piuttosto gravosa, con un sorriso e ora con la “censura” imposta dalla necessità della mascherina temevo che il rapporto con i pazienti potesse risentirne; mi sono sentito sollevato nel vedere come fin da subito tutta la nostra divisione sia riuscita a superare l’ostacolo dato dai dispostivi di protezione e accogliere e trattare i pazienti con lo stesso calore di sempre».

La Uoc di Radioterapia Oncologica non è un "reparto Covid", ma l'emergenza sanitaria ha modificato l'approccio clinico e organizzativo dell'intero ospedale: cosa è cambiato nella vostra attività? «La Radioterapia, per l’importanza del servizio che offre, non può permettersi di ridurre il proprio lavoro, e non lo ha fatto neanche in corso di emergenza Covid, in quanto il rischio di diagnosi e cure tardive non è da trascurare. Mai come in un momento come questo i nostri pazienti, già “fragili” per la malattia oncologica, devono sentirsi accolti e presi in cura. La nostra attività ambulatoriale, sia nelle prime visite sia nel follow up, non ha subito ripercussioni, potendo anche contare sulla possibilità di visite a distanza in teleconferenza quando praticabile».
 
Però avete dovuto adattarvi… «Qualcosa ovviamente è cambiato. Alla luce dell’alto numero di pazienti che quotidianamente frequentano il nostro Centro, al fine di permettere la prosecuzione dei trattamenti, si è reso necessario proteggere loro e tutti gli operatori sanitari da questo nemico invisibile. Per questo motivo sono state adottate misure atte a ridurre il numero di persone in sala d’attesa e favorirne il distanziamento ed è stato stabilito un filtro all’ingresso della divisione, dove a turno tutto il personale si è reso disponibile a misurare la temperatura corporea dei pazienti e degli operatori a inizio e a fine turno. Inoltre è in fase di avvio un progetto che ha lo scopo di monitorare a distanza gli operatori sanitari e i pazienti in trattamento facendoli sentire meno soli in una fase emergenziale come questa. Attraverso l’utilizzo di una applicazione per cellulare e di dispositivi indossabili il paziente potrà infatti fornirci quotidianamente dati sul suo stato di salute; in questo modo saremo in grado di intercettare un’eventuale situazione a rischio e guidare a distanza il paziente sugli accorgimenti da adottare e sulle procedure da seguire riducendo così i possibili contagi con gli altri pazienti e con gli operatori».

Esiste già un ricordo, uno sguardo, una parola che lei porterà con sé al termine di questa esperienza? Qual è stato, finora, l'insegnamento più grande? «Credo che la conseguenza più terribile di questa situazione sia la solitudine che questa malattia porta a chi ne è affetto e ai suoi familiari. Sarà difficile per me dimenticare il volto pieno di sconforto del figlio di un nostro paziente che non ha potuto dare l’ultimo saluto a suo papà prima che questi morisse per una polmonite sospetta per Covid-19. Difficile dire qual è l’insegnamento più grande che porterò con me. Questa situazione straordinaria ci ha dato, quasi bruscamente, tempo e modo di riflettere su molti aspetti della nostra vita. Probabilmente uno su tutti è proprio quello delle relazioni interpersonali. Di sicuro questa situazione mi ha ricordato come sia importante coltivare e alimentare questi rapporti, in particolare quelli all’interno della propria famiglia ma non solo, a volte trascurati o dati per scontati nella vita di tutti i giorni».

Qual è il messaggio che un giovane medico, in un’esperienza improvvisa, nuova e sfidante, vuol lasciare ai tanti ragazzi che ora, ancor di più aspirano a diventare medici e infermieri? «Ai tanti che stanno studiando posso dire che dai testi alla pratica molte cose cambiano. Nella propria vita professionale si troveranno sempre davanti al nuovo, a piccoli imprevisti o situazioni complicate e a volte potrebbe anche capitare di non sentirsi all’altezza del compito che ci è stato assegnato. Ciò che stiamo vivendo, per esempio, è una situazione che nessun medico pensava di dover mai fronteggiare ma non appena è stato necessario mettere in atto un grosso sforzo in ambito sanitario nessuno si è tirato indietro e ognuno di noi, secondo le proprie possibilità, ha dato e sta dando il proprio contributo. Questo a riprova che la professione medica e infermieristica non possono definirsi come semplici mestieri ma vere e proprie missioni. L’importante è affrontare tutto con fermezza, preparazione e forza d’animo e tenere a mente in ogni circostanza (emergenziale o ordinaria che sia) qual è il fine ultimo della nostra professione: assistere e prendersi cura dell’altro».


Ultimo di una serie di articoli dedicati ai nostri medici in prima linea nella lotta al Coronavirus