Nell’emergenza Covid hanno fatto notizia, accanto a medici e infermieri, anche i sacerdoti. Molti perché, per stare vicini ai malati negli ospedali e nelle case di riposo, hanno contratto la malattia e, talora, sono anche deceduti. Tutti perché non hanno abbandonato la vicinanza alle persone colpite in maniera diretta o indiretta. Tra di loro anche molti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica, che, accanto al loro impegno in Ateneo, sono stati in prima linea su diversi fronti 


Per affrontare questo tempo di quarantena ognuno ricerca un supporto spirituale che aiuti a non perdere la speranza e a non farsi travolgere dalla drammaticità del momento. Questo riguarda le persone comuni, ma non dobbiamo dimenticare i medici che fin dall’inizio della pandemia hanno dovuto sopportare ritmi e sacrifici per aiutarci tutti. Anche loro hanno bisogno di un conforto. Don Nunzio Currao, assistente pastorale in Università Cattolica, si occupa proprio dell’assistenza spirituale del personale medico-infermieristico della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs.

Vista la situazione così eccezionale, come è cambiato il suo approccio rispetto a una situazione di normalità? «È vero che anche prima i medici erano sottoposti a uno stress molto forte, però nelle condizioni attuali forse hanno bisogno di un supporto ulteriore. «Questa pandemia ci ha trovati un po’ tutti impreparati soprattutto per quello che riguarda le proporzioni del numero dei malati che ha fatto sì che parecchi reparti del Policlinico si dovessero immediatamente trasformare in Covid. In pochi giorni l’ospedale è cambiato radicalmente: sono state limitate al massimo le visite dei parenti e tutte le attività ambulatoriali. Per quel che riguarda il personale si è incrementata da parte del Centro pastorale la vicinanza e l’assistenza. Per loro abbiamo intensificato innanzitutto la preghiera: la mattina nella cappella del personale normalmente facciamo l’adorazione eucaristica dalle 6 fino alle 8 e mezza, mentre ora è stata prolungata per tutta la mattina e il pomeriggio in accordo con i frati e la comunità delle suore». 

Come siete presenti nei reparti? «La nostra presenza si è intensificata. Abbiamo molto parlato con lo sguardo. Ai medici porto spesso delle riflessioni, preghiere perché si sentano supportati, rincuorati nel loro servizio. Nell’andirivieni del personale è aumentato il dialogo, il confronto, il bisogno di voler comprendere anche in un’ottica di fede quanto stava e sta accadendo. Non potendo all’inizio i sacerdoti entrare nelle stanze dei degenti, c’è stato da parte nostra un aiuto nella responsabilizzazione del personale per una vicinanza spirituale ai pazienti che ha trovato uno dei momenti più significativi nella comunione portata dal personale. Hanno chiesto consigli su come stare vicino ai malati dal punto di vista spirituale, quali preghiere dire, se potevano benedire. Io ho detto loro di non stupirsi perché non ci sostituivano, ma esercitavano la dignità sacerdotale che è una dignità conferita a tutti noi nel battesimo». 

Dai medici è venuta qualche richiesta, non inerente al rapporto con i pazienti, per non lasciarsi abbattere dal numero dei contagi e dei decessi? «In questa fase si cerca alla luce della fede di comprendere quanto sta avvenendo e i messaggi che Dio vuole mandarci. Lo chiedono i medici perché vedono la sofferenza dei pazienti e l’impossibilità di poterli adeguatamente curare vista la non disponibilità di un vaccino. Loro hanno visto morire molte persone, ma a sconvolgerli di più è stata la solitudine di questi pazienti e il dolore nel vedere i pazienti senza la possibilità di avere accanto i parenti. Io suggerisco loro di non aver alcun timore, di rincuorarli con le parole di fede, di gettare un piccolo seme che magari in quel terreno potrebbe far nascere qualcosa di buono. Loro mi confidano che non pochi li hanno ringraziati per questa vicinanza psicologica e spirituale».

Nella sua esperienza di questi mesi è entrato in contatto con medici relativamente giovani che sono stati coinvolti nello sforzo medico? Quale è stato l’approccio con loro? «Essendo il nostro un Policlinico universitario, la maggior parte dei medici sono giovani. È logico che su di loro ha avuto un impatto diverso in quanto medici che fino a ieri si occupavano soltanto della loro specialità mentre ora viene chiesto loro di curare i pazienti Covid. Qui al Policlinico circa una trentina tra personale medico e infermieristico si è contagiato: alcuni sono stati ricoverati, altri sono in quarantena a casa. Io li sento tutti i giorni, non faccio mancare un messaggio quotidiano. Soprattutto coloro che sono più direttamente a contatto con i pazienti Covid o che addirittura si sono contagiati hanno iniziato un percorso di riflessione non solo a livello personale, ma anche di rivisitazione del loro approccio medico-infermieristico. Ovvero hanno capito che forse era necessario rivedere l’approccio con il paziente, ascoltarlo, restargli accanto». 

Nella sua opera di assistenza, che cosa prova e come riesce a trasformare le emozioni in qualcosa che possa sostenere i medici? «Da 30 anni vengo al Policlinico Gemelli. Dalla mia parte c’è stata questa trentennale visita quotidiana ai malati. Il momento mette anche me in uno stato di riflessione. Però devo dire che il sentimento che ho provato e provo tuttora è la cosiddetta “compassione evangelica”: non vedere da lontano il problema ma far sentire quella prossimità che era la caratteristica principale del ministero di Gesù. 

Una vicinanza speciale… «Per questo parlavo dello sguardo degli occhi: si immagini che i dispositivi che medici e infermieri devono indossare quando vanno da un paziente Covid, a stento permettono di vedere gli occhi. Questi sono i medici che cerco di intercettare per potergli comunicare tutta la vicinanza e l’affetto di cui hanno bisogno. In questo senso trovo che l’esercizio del ministero sacerdotale tocca in questa fase una delle sue punte più alte: un approccio di vicinanza e di affetto che travalica le parole e la sacramentalità. In questo mi sento molto vicino all’approccio che Gesù aveva nei confronti dei malati: avvicinarsi, vedere e provare compassione. Io cerco di trasmettere loro di farlo come diceva San Camillo De Lellis ad un novizio: “mettere cuore nelle mani”».

Quindi lei non si è mai trovato nella circostanza in cui data una situazione particolarmente grave di sentirsi in difficoltà nel capire come portare un sostegno? «Tutti i giorni vado in rianimazione. Può immaginare il dramma del paziente che si trova in quella situazione, ma anche il dramma di medici e infermieri che praticano manovre rianimatorie. Mi sono trovato spesso in momenti particolarmente complessi che hanno pesato non poco a livello spirituale e psicologico. Spesso il mio andare più volte in questi luoghi durante la giornata è stato accolto con “sei capitato nel momento più importante, in cui avevamo bisogno di te”, chiedendo una preghiera o una benedizione, richiesta che non capitava che facessero prima. Sono tutte espressioni che indicano il desiderio da parte loro di aver assoluto bisogno di qualcosa di più profondo che accarezzi in quel momento la loro mente e soprattutto i loro cuori».


Quinto di una serie di articoli dedicati all’impegno dei preti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica sul fronte Coronavirus