Da quasi un mese la campanella è tornata a suonare per bambini e ragazzi, segnando quasi uno spartiacque fra la paura che inchioda all'immobilismo e il coraggio di ricominciare a vivere. Anche se la paura, per ora più fuori che dentro la scuola, sembra ritornare.

Ma la ripresa delle attività in quest’anno così particolare, dopo che per mesi sono mancati riti, abitudini e incontri, è stato comunque un momento importante. «La riapertura delle scuole ha avuto un valore simbolico molto alto, un segno di vitalità che ci dice che la vita va avanti, cercando di fare in modo che tutti, a partire da ragazzi e bambini abbiano un loro contesto di riferimento in cui crescere» afferma Pierpaolo Triani, docente di pedagogia della facoltà di Scienze della formazione. «È un passo imprescindibile per un Paese che vuole costruire il proprio futuro: non ci dobbiamo però dimenticare che la scuola, anche quando era fisicamente chiusa, non ha mai comportato il venir meno della sua attenzione educativa, che è ripresa con difficoltà, ma anche con rinnovata vitalità».

Come si fa a fare scuola convivendo col Covid? «La sfida che le scuole hanno davanti è molto impegnativa, perché il rischio di una didattica molto rigida e di una gestione della vita di classe che costi molta fatica ai ragazzi c’è, e questo non favorisce l’apprendimento. Se vogliamo accompagnare la scuola e tutti i servizi educativi, dobbiamo mantenere alto lo sguardo pedagogico, tenendo presente che i bambini e i ragazzi non hanno bisogno solamente di un posto in cui stare ma soprattutto di relazioni significative con adulti e tra pari, e che necessitano di stimoli e proposte che allenino la loro mente, i loro interessi, la loro capacità di scoprire e capire. Per questo è importante che in questi mesi il lavoro dei docenti sia accompagnato in maniera particolare, perché possano avere momenti di confronto e riflessione, per capire come lavorare al meglio con i ragazzi e con le loro famiglie».

Molti ragazzi hanno toccato con mano il lutto e la sofferenza: come aiutarli, soprattutto se il livello dell’emergenza tornasse alto? «I ragazzi avranno bisogno di essere ascoltati, anche rispetto a ciò che hanno vissuto nei mesi scorsi, senza cadere nell’errore di concentrarci su ciò che è stato, ma senza far finta che niente sia successo. Occorrerà inoltre supportare molto anche il lavoro di mamma e papà. Come genitori avremo molte ansie: che i nostri figli imparino meno, che non riescano a recuperare le competenze non apprese, che portino dentro di loro i segni della fatica. Per questo saranno molti importanti momenti formativi e per gli insegnanti e per i genitori in cui si apra la riflessione e il confronto su quanto è accaduto e su come, attraverso la normale azione educativa, si possa accompagnare i nostri figli a riprendere il cammino senza strappi».

Con l’ultimo Dpcm si è ventilato il ritorno della didattica a distanza nelle scuole superiori, poi rientrato. Ma la possibilità rimane. Che rischi vede a livello educativo? «L’attenzione deve restare alta. La possibilità che si torni alla Dad nella scuola superiore è sicuramente presente. Come prepararsi? Facendo tesoro delle esperienze che si stanno vivendo: la didattica a distanza richiede un’attenzione particolare, sia nelle relazioni che nella gestione dei contenuti e dei compiti. Il rischio più grande è che gli studenti più fragili e meno motivati abbandonino rapidamente l’impegno scolastico. L’attenzione educativa e di relazione devono attivarsi per contenere la dispersione dei più fragili».

Se è vero, come molti sostengono, che nulla sarà più come prima, non potrebbe forse essere, questa, anche un'occasione positiva di rinnovamento della scuola, declinato nelle diverse fasce d'età? «I ragazzi hanno bisogno di normalità. È difficile costruirla in un momento che non è ancora normale: però la normalità è data soprattutto dalla quotidianità dalle relazioni, dai riti che la scuola permette, dai gesti di attenzione che in essa si compiono e dalla spinta a guardare avanti che la scuola può dare. C’è bisogno di ritessere e valorizzare al meglio ciò che abbiamo imparato nei mesi scorsi, ovvero che la scuola è un bene comune, che richiede la collaborazione di tutti. Questo implica anche un nuovo patto educativo di corresponsabilità, che faccia tesoro di quanto vissuto. Abbiamo imparato che fare scuola non è soltanto parlare di fronte a qualcuno, ma è mettere le persone nella condizione di scoprire, di essere sollecitati all’apprendimento, di rielaborare le conoscenze. La scuola è interazione. Infine abbiamo sperimentato l’importanza che ricoprono le nuove tecnologie, non come elementi totalmente sostitutivi dell’azione didattica, ma come strumenti di arricchimento della proposta formativa, per aiutare tutti a crescere».