Il contesto familiare è una palestra per apprendere l’educazione alla diversità.. Lo è per ogni società, grazie alla sua articolazione composta da diversi ruoli di padre, madre, figli maschi e femmine e generazioni a confronto. Se questo vale in generale, lo è in modo ancor più incisivo per quei nuclei familiari che si trovano ad affrontare il processo migratorio da un Paese all’altro, e quindi da una cultura e una religione all’altra, e in cui generi ed età anagrafiche sono variabili in grado di condizionare le modalità e le tempistiche d’assimilazione e integrazione col contesto ospitante.

Una descrizione accurata, sostenuta anche da studi empirici, è contenuta nel corposo studio-volume “Migrants and Religion: Paths, Issues, and Lenses” (Brill edizioni, disponibile gratuitamente ed in lingua italiana in open access) di cui il ciclo di webinar “Migrazioni e appartenenze religiose” promosso dall’Università Cattolica in collaborazione con la Conferenza episcopale italiana (Cei), presenta i risultati per macroaree.

Secondo padre Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della Famiglia della Cei, «l’inverno demografico che sta investendo l’occidente renderà più difficile costruire una collettività che tenga conto delle diversità: un figlio, che fatica a sentirsi “fratello”, incide notevolmente sulla società».

Il nucleo familiare, peraltro, rappresenta l’ambito primario delle interrelazioni di e tra generi, di cui Vera Lomazzi, ricercatrice senior al Gesis Leibniz Institute for social scienze di Colonia, in Germania, ha stilato una sorta di mappatura geografica a partire dall’analisi delle differenze esistenti nelle condizioni femminili nei Paesi del nord-Africa e del medio Oriente, da cui proviene la maggior parte dei flussi migratori diretti in Italia. «Noi occidentali abbiamo una visione semplificata di geografie complesse ma integrazione e discriminazioni non sono uguali in tutte le aree. Questo ha a che fare coi diversi livelli d’interpretazione della Shari’a, la legge rivelata da Dio, che ammette l’interferenza del fattore religioso all’interno della sfera pubblica e delle leggi che regolano lo status personale».

Le istituzioni, quindi, giocano un ruolo fondamentale, poiché in base alle leggi emanate permettono o negano modelli di comportamento e culturali. Qualche esempio? «In Tunisia i livelli di partecipazione femminile alla sfera economica, politica e istituzionale sono molto alti rispetto alla media, col 41% di femminismo secolare (ovvero il pensiero “molto occidentale” per cui il potere religioso sullo stato è visto come un limite al raggiungimento dell’uguaglianza di genere) e percentuali bassissime di islamismo, ovvero lo sguardo più fondamentalista che punta alla forte intromissione delle norme religiose nel diritto privato, a scapito dei pari diritti» fa notare Vera Lomazzi. «Viceversa, il caso più problematico e radicalista è l’Egitto, dove la visione islamista tocca quota 46%.Nel mezzo si trovano realtà come il Marocco, dove il femminismo secolare è registrato solo nel 21% della popolazione ma alta è la percentuale di femminismo musulmano, quello per cui l’autorità patriarcale è confermata ma non esclude di sostenere i diritti delle donne (56,2%). Irrisori sono i livelli d’islamismo».

Oltre alla parità di genere anche i fattori generazionali incidono, e non poco, sui processi di integrazione connessi alla trasmissione e assimilazione di valori tra cui quelli religiosi, anche se spesso, nelle società maggiormente improntate alla secolarizzazione come quella occidentale, il tema rimane sullo sfondo. Eppure l’età degli individui nel momento della migrazione è determinante: se si è adulti migranti il grado di formazione della personalità è completo, mentre i minori possono essere inseriti nel sistema scolastico del Paese d’accoglienza.

«Dopo la migrazione, le diverse generazioni che compongono una famiglia portano avanti con diverse velocità e modalità il rapporto con la cultura del Paese d’origine» fa notare Donatella Bramanti. «L’assimilazione è spesso segmentata: può essere consonante in quei casi in cui genitori e figli si acculturano con la stessa velocità, ma il più delle volte è dissonante, per via della maggiore propensione delle giovani generazioni ad adottare lingua, usi e costumi del Paese ospitante».

Questo può rappresentare l’innesco di conflitti generazionali, che vede coinvolti da un lato bambini e giovani sottoposti a nuovi input culturali provenienti dalla società che li ha accolti e da culture globali veicolati da mass media e social network, dall’altro i genitori che vorrebbero trasmettere loro i valori della terra d’origine. Per questo «la vera sfida della migrazione è il meticciato, una commistione di legami con le proprie origini che non esclude l’integrazione con la nuova cultura».

Lo dimostrato anche lo studio empirico realizzato dall’équipe diretta da Cristina Giuliani e condotto su un campione di 10 nuclei familiari di origine egiziana, copti ortodossi, residenti in area milanese. «Si tratta di prime generazioni emigrate i cui figli sono nati in Italia, oppure sono stati ricongiunti in tenera età. I mariti sono in Italia mediamente da 20 anni, le donne mediamente da 15, in tutti i componenti della famiglia emerge forte il sentimento di fatica e la tristezza del distacco dalla terra madre, il ché porta ad una negoziazione all’interno della coppia e della famiglia».

Un secondo studio condotto da Giovanni Giulio Valtolina, docente associato di Psicologia per lo sviluppo e Psicologia interculturale alla facoltà di Scienze politiche e sociali, si è invece focalizzato sui soli minori, con focus group composti da 28 adolescenti maschi e femmine di età compresa tra i 12 e i 18 anni, egiziani copti, migrati in area milanese in età scolare. «Al netto di come la migrazione forzata possa portare all’emersione di una sindrome da stress post-traumatico, ad emergere è la forte identità etno-religiosa di questi minori. Si tratta di un dato in linea con gli studi internazionali di settore, eppure sorprende riscontrare un tale livello di orgoglio e rispetto per le proprie radici in ragazzi in una fascia d’età generalmente caratterizzata da fragilità dal punto di vista identitario».