Percepiscono un salario inferiore ai due/terzi di quello mediano e si concentrano soprattutto tra lavoratori temporanei, giovani e donne. È questo l’identikit dei “working poor”, i lavoratori a basso salario sempre più presenti in un mercato occupazionale fortemente vulnerabile dal punto di vista economico e contrattuale. In Italia secondo dati Ocse sono tre milioni, circa il 15% sul totale occupati nel nostro Paese, contro il 10% di quelli della Danimarca o il 6% della Svezia. Una percentuale destinata ad aumentare, anche per colpa della recessione che ha investito il sistema globale. A tracciare un quadro su chi siano i lavoratori deboli, quali le condizioni economiche che ne determinano l’incremento numerico e i relativi risvolti sociali è stato il workshop internazionale Low-pay, low skill, and low income che si è tenuto in Università Cattolica lo scorso 26 e 27 giugno. Promosso dal Centro di ricerche economiche sui problemi del lavoro e dell’industria (Creli) e dall’Amsterdam Institute for Advanced Labour Studies (Aias), il convegno, suddiviso in varie sessioni, ha fatto il punto sulle trasformazioni in atto nel mercato del lavoro, caratterizzato da una crescente flessibilità. Una due giorni di studio nel corso della quale si sono confrontati sul tema i maggiori esperti internazionali provenienti da prestigiose istituzioni universitarie, anche nel tentativo di individuare nuove politiche da mettere in pratica. Tra loro David Autor, del Massachussets Institute of Technology (Mit), e Janet C. Gornick, dell’Università di New York e attualmente consulente dell’amministrazione Obama.

Esiste una reale correlazione tra crisi e aumento di lavoratori socialmente deboli? «Quando c’è una fase recessiva, come quella che viviamo, la riduzione del numero di occupati è conseguente», ha spiegato Claudio Lucifora, docente di Economia politica presso l’Ateneo del Sacro Cuore e tra gli organizzatori del workshop, insieme a Wiemer Salverda, dell’Aias. «I primi a essere espulsi sono i meno protetti, quindi giovani e donne, e coloro che hanno un lavoro a tempo determinato, i cui contratti decadono e non sono rinnovati. Questi a loro volta vengono sostituiti da altri, secondo una logica di assestamento del mercato verso il basso». Tuttavia, in Paesi come Danimarca, Olanda, Francia, in cui la flessibilità è accompagnata da sostegni e garanzie (la cosiddetta “flexicurity”), la crisi assume una funzione di “distruzione creatrice”: espelle lavoratori, fa chiudere imprese, ma fa trovare anche le energie per riallocare le risorse in modo più efficiente. Nei Paesi mediterranei come Italia, Spagna e Grecia, al contrario, la forte protezione dei lavoratori regolari a fronte della scarsità di tutele per i temporanei non solo inibisce il fenomeno della distruzione creatrice, ma produce anche un incremento del divario tra gli assunti a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato. Basti pensare che, calcolando il differenziale medio in Europa tra lavoratori permanenti e temporanei, si va dall’8,91 euro medi all’ora percepiti dai primi ai 7,34 dei secondi.

 

Alla precarietà si somma dunque una penalizzazione salariale. Che in Italia, rispetto allo scenario europeo, diventa più forte. «Una recente indagine Ocse sui livelli retributivi (in termini reali) in Europa – ha osservato Lucifora – classifica il nostro Paese agli ultimi posti. Il basso salariato italiano, oltre a percepire una paga inferiore rispetto a quella del collega europeo, soffre per il differente potere d’acquisto». Un gap tra chi sta bene e chi è a rischio povertà che conduce alla scomparsa della classe media. Un fenomeno in pieno corso negli Usa, in Inghilterra e Germania, e che lo studioso americano David Autor, del Mit, definisce “polarizzazione sociale”. Secondo Autor con l’introduzione dei computer i vecchi colletti bianchi e le professioni routinarie sono scomparsi perché sostituiti dai pc. Ne è conseguita una redistribuzione delle professioni intermedie. Con il risultato che i lavoratori più qualificati e in possesso di un diploma di laurea sono stati assorbiti da attività complementari alla tecnologia. I meno specializzati sono andati a ricoprire impieghi a bassa qualifica, soprattutto legati ai servizi di cura alla persona. Quanto all’Italia la polarizzazione potrebbe essere già in atto. Ma resta difficile metterne a fuoco i contorni poiché la maggior parte di questi lavori sono svolti nel sommerso oppure da colf e badanti extracomunitarie non regolarizzate.

 

In un mercato del lavoro dove la flessibilità è all’ordine del giorno, dunque, servono maggiori garanzie e tutele per coloro che, a causa delle basse qualifiche professionali, sono maggiormente esposti a subire le penalizzazioni di un mercato globale. «Le crisi esaltano queste segmentazioni – ha detto Lucifora –. Ma, molti studi lo dimostrano, al di là della recessione economica, c’è una tipologia di lavoratori soggetta a discriminazioni: servono aggiustamenti e sostegni finanziari a loro favore. Tra gli interventi di policy più urgenti, vanno segnalati politiche sociali che favoriscano un’equa divisione tra uomini e donne dei carichi familiari, attività formative volte a riqualificare i lavoratori “low-pay”, tenendo conto delle diverse esigenze del mercato, defiscalizzazioni per i bassi salariati, già operative in molti Paesi e che stanno dando buoni frutti».