I maschi hanno molta più fiducia nelle proprie capacità e maggiore propensione alla competizione rispetto alle femmine. La tesi si fonda sulla percezione dei comportamenti già in età infantile e viene confermata dalle prestazioni in ambito professionale, dove le donne hanno ancora meno successo degli uomini anche a fronte di prestazioni scolastiche migliori. Alcuni spunti di riflessione su questa tematica provengono dall’ambito della psicologia della decisione, un campo di ricerca che cerca di spiegare come e perché le persone nella vita quotidiana continuamente effettuino scelte e prendano decisioni a partire dai primi anni di vita. Questo è uno dei temi ripresi dalla Summer School sui processi decisionali del dipartimento di Psicologia della Cattolica di Milano dal titolo Decision and time, organizzata dai professori Alessandro Antonietti, Patrizia Catellani e Antonella Marchetti, che si è svolta dal 30 giugno al 3 luglio scorso, alla quale hanno partecipato gli psicologi Drazen Prelec, Keith Markman e l'economista Matthias Sutter dell’Università di Innsbruck.


Quest'ultimo, presentando le sue più recenti ricerche sul decision-making e sulla difficoltà delle donne di sfondare il cosiddetto "soffitto di cristallo", ha mostrato che se maschi e femmine devono risolvere un compito cognitivo (un labirinto o un calcolo) e si propone loro un compenso economico per la corretta soluzione attraverso due modalità – partecipazione a una gara vs soluzione individuale – quando i maschi scelgono di gareggiare contro le femmine riescono significativamente meglio: scelgono di competere nel 73% dei casi mentre le femmine lo fanno soltanto nel 35%. Questa differenza sarebbe dovuta alla superiore fiducia dei maschi nelle proprie capacità e alla loro maggiore propensione alla competizione, mentre le capacità reali non sembrano spiegare tale divaricazione. Parrebbe inoltre che appositi progetti di intervento, finalizzati a connotare in senso femminile la rappresentazione della competizione, siano efficaci nell’indurre le donne ad accettarla. Dal punto di vista culturale l’inferiore propensione a competere delle donne è stata interpretata facendo appello ad alcune loro caratteristiche “intrinseche” come l’essere dispensatrici di nutrimento e cure, che si riverbera nel ciclo di vita femminile come maggiore attesa sociale di “caregiving” nei confronti dei vari membri del gruppo familiare, dal neonato all'anziano, che possono trovarsi in situazione di dipendenza.
Le differenze di genere, inoltre, risultano fortemente influenzate anche dal tipo di società a cui gli individui appartengono: infatti nelle società matrilineari le donne sembrano competere più frequentemente degli uomini.


Questi dati riguardano soggetti adulti, tranne una prima evidenza relativa a bambini di dieci anni: quando la posta in palio dipende da una prestazione fisica, quale la velocità nella corsa, a parità di capacità, i maschi si impegnano di più nella gara. A questo punto, è inevitabile domandarsi se la volontà di competere cambia con l’età ed esiste un’epoca della vita in cui non si osservano ancora quelle differenze di genere nella competizione che sono spesso responsabili dei diversi livelli di achievement di maschi e femmine.


Questi dati riguardano soggetti adulti, tranne una prima evidenza relativa a bambini di dieci anni. Uno studio tutt’ora in corso di Sutter e Rutzler ha coinvolto ragazzi dai 9 ai 18 anni in un compito matematico e bambini dai 3 agli 8 anni in un compito fisico (gara di corsa). Il gap di genere nella scelta di competere o affrontare la prova individualmente è presente dai 9 ai 18 anni, si riduce soltanto a cavallo tra la pre-adolescenza e l’adolescenza, per incrementarsi nelle età successive). Per quanto riguarda i bambini dai 3 agli 8 anni ai quali si propone la gara di corsa, da un lato le prestazioni di maschi e femmine sono equivalenti a ogni età, dall’altro lato i maschi tendono sistematicamente a valutare le proprie capacità come superiori rispetto a quanto non facciano le femmine. Per quanto riguarda la seconda domanda, ossia il momento di insorgenza della ritrosia alla competizione nelle femmine, questo studio sembrerebbe situarla a partire dai primi anni della scuola elementare.


Una questione aperta è quanto queste differenze dipendano da fattori evolutivi e quanto da fattori educativi, ossia quanto famiglia, scuola e società, trasmettendo ai bambini e ai ragazzi rappresentazioni sociali delle loro capacità divaricate per genere, contribuiscano a creare quella decisione di non competere che fa sì che le donne, benché “veloci” come gli uomini, così spesso “restino indietro”.