Negli Stati Uniti ha dato vita a “Occupy Wall Street”. Ma un po’ ovunque, dopo la crisi finanziaria del 2008, il fenomeno gli stipendi d’oro dei top manager ha generato veri e propri movimenti sociali. Eppure la remunerazione degli amministratori, pubblici e privati resta una questione sempre più centrale in tema di corporate governance. E non solo.
Molteplici sono gli aspetti e le criticità, dall’aspetto giuridico, anche a livello comunitario, fino a quello organizzativo. Di qui la necessità di attrarre e reclutare manager di qualità in grado di rispondere alle aspettative dell’impresa salvaguardando la coerenza con le normative e l’effettiva creazione di valore a beneficio e negli interessi dei diversi attori e di credibilità rispetto all’opinione pubblica in generale.
Tra le diverse iniziative, già la Raccomandazione della Commissione Europea (2009/385/CE) stabilisce la necessità di definire la remunerazione, nelle sue componenti varabili, in base a “risultati predeterminati e compatibili con la sostenibilità dell’impresa nel lungo periodo”, determinando inoltre, per le imprese finanziarie, l’obbligo di “elaborare, applicare e mantenere una politica retributiva coerente con una sana e prudente gestione del rischio”. Quali sono le maggiori criticità in termini di applicabilità?
Una risposta la offre Roberto Piccinelli, Hr Director di Epta, Gruppo multinazionale specializzato nella refrigerazione commerciale per la distribuzione organizzata con una forte attenzione alla sostenibilità. «La nostra è una realtà familiare; oltre a un rappresentante con ruolo esecutivo e responsabilità sui risultati di breve termine, si occupano degli aspetti remunerativi altri cinque direttori esecutivi del Gruppo con responsabilità strategiche, a cui l’azienda chiede il rispetto delle performance nel breve ma soprattutto nel lungo periodo. L’esercizio fatto con due membri indipendenti del Cda nel ruolo del Comitato di remunerazione è stato quello di individuare uno strumento di governance ex ante, con il quale gli azionisti chiedono alla persona a cui hanno dato mandato di gestire l’azienda nella sua operatività e al top management di allineare loro aspettative con risultati attesi».
Piccinelli spiega il modello di remunerazione adottato e perfezionato dall’azienda. «È un modello che sposta il peso specifico del compenso dalla parte fissa a quella variabile, in particolare a lungo temine. Parlando di criticità, essendo un’azienda italiana, propugnare questo strumento in un contesto in cui il mercato punta molto sulla parte fissa non è scontato, ma nell’ottica di un migliore controllo e di obiettivi di crescita sfidanti, il Gruppo prevede, in percentuale, una parte fissa al di sotto del 50%; benefit e variabile di breve termine, poco più del 20%, mentre la remunerazione di lungo periodo vale il 30%. Riteniamo sia un meccanismo incentivante, che crea retention, soprattutto se l’azienda funziona. Penso inoltre sia valido per remunerare chi è chiamato a generare risultati, perché è un modello che si autofinanzia».
In tema di trasparenza e autoregolamentazione Epta non è una società quotata ma ha già concluso il percorso triennale Elite di borsa italiana. «Per noi il concetto chiave è di lavorare “come se” l’azienda fosse quotata; questo comporta, per esempio, un lavoro di modifica nel sistema di long term, come stock option plan di società quotate, con la possibilità, tra l’altro, di offrire premi a manager, se investitori nell’azienda, o la facoltà di esercitare i loro diritti nel tempo. Da una parte ciò mantiene una componente di risorse economiche all’interno dell’azienda, dall’altra diventa una tutela rispetto all’abbandono».
Tuttavia, una gestione equilibrata all’interno delle organizzazioni non è facilmente realizzabile. Quali possono essere i principi, gli strumenti ideali per determinare i compensi? Risponde Francesco Ferrara, Partner e Audit Leader di Pwc, responsabile revisione bilancio e reportistica, un ruolo che consente di monitore le performance rispetto alle forme di remunerazione degli amministratori, anche in ottica di equità.
«In aziende in cui la cultura non sia abbastanza forte, laddove non vi siano controlli compensativi adeguati e l’azione degli amministratori sia finalizzata al raggiungimento di determinati obiettivi legati ai piani, possono derivare conseguenze incongrue. Ciò è ancor più evidente in un momento di crisi, in cui prevale un atteggiamento mordi e fuggi, di permanenza non di lungo periodo, di volatilità dei ruoli all’interno delle aziende. In questo contesto, meccanismi di incentivazione molto aggressivi possono portare a comportamenti sbagliati o forzati nella rappresentazione della misurazione degli obiettivi collegati ai piani stessi».
Qual è la situazione in termini di retention, appeal sul mercato ed equità? Secondo Ferrara, «negli ultimi quindici anni ha prevalso la tendenza ad allineare le esigenze degli azionisti a quelle dei manager con piani basati sulle azioni. Anche in Italia è ormai comune prassi da oltre dieci anni, ma questi meccanismi non sono riusciti ad allineare obiettivi di lungo termine delle aziende a quelli dei manager. Al contrario, nella loro formulazione pratica hanno consentito in molti casi l’ottenimento di remunerazioni sproporzionate rispetto alle performance sia delle azioni, sia delle aziende, come leggiamo spesso nelle cronache giornalistiche. Credo sia un percorso ancora in fieri rispetto al raggiungimento dell’obiettivo di equilibrio tra crescita, obiettivi di lungo periodo e remunerazione stessa».