L’utilizzo della Trekking Therapy e delle attività outdoor inserite come esperienza nell’ambito del percorso denominato “messa alla prova” - cui il Tribunale dei Minorenni può decidere di indirizzare alcuni adolescenti sottoposti a procedimento penale - produce un grande impatto emotivo positivo nei ragazzi, ne aumenta nettamente il sentimento di autostima, migliora la percezione che hanno del mondo esterno e degli adulti (visti non più solo come giudici ma anche come qualcuno con cui parlare, confrontarsi e in grado di dar loro una mano) e la fiducia nelle proprie capacità di riuscire a far fronte alla vita con un approccio costruttivo.

A spiegarlo sono Giancarlo Tamanza, direttore del Laboratorio di Psicologia della Cattolica e Gabriella Vincenzi, assistente sociale dell’USSM-Ufficio Servizio Sociale Minorenni del Tribunale dei Minorenni di Brescia, a poche settimane dalla fine della terza edizione di “A PIEDI E IN BICI. Percorsi educativi”, il progetto nato dalla sinergia tra la Cooperativa Sociale Area Onlus, il Laboratorio di Psicologia e il Tribunale bresciano.

Il progetto educativo che abbina la fatica del cammino outdoor ad un percorso psicologico (non meno faticoso) sia individuale che gruppale, ha tagliato con successo il traguardo della terza edizione. Tra conferme e nuove elementi da focalizzare, quali sono le risultanze cliniche da mettere in evidenza?
Tamanza: «Premettendo che la costante risiede nella tipologia di esperienza proposta, mentre la variabile è rappresentata dal gruppo stesso che è ogni volta diverso, due sono gli elementi significativi: l’aver scardinato l’atteggiamento di diffidenza e sfiducia che questi adolescenti nutrono nei confronti degli adulti, e l’impatto nettamente positivo che l’esperienza gruppale ha avuto sui sentimenti di autostima e percezione positiva di sé di ciascuno dei partecipanti. Un fatto non scontato, considerato che si tratta di ragazzi inseriti in un percorso obbligato: il rischio è che “facciano i bravi” perché controllati ma poi oppongano molta resistenza nello scorgere il potenziale trasformativo. I risultati positivi ad oggi raccolti sono stabili negli anni».
Vincenzi: «Parlare di risultanze ha inoltre a che fare con la soggettività dei ragazzi: spesso intrattengono rapporti conflittuali o distaccati con i genitori, ma dopo l’esperienza iniziano a sviluppare hobby a contatto con la natura e relazioni positive con gruppi di adulti. Perché questo avvenga la diversificazione degli strumenti è fondamentale: le comunità residenziali spesso si rivelano non efficaci poiché i ragazzi, per meglio essere reinseriti sul territorio che li accoglierà, hanno bisogno di sperimentare un contatto positivo con esso, necessitano di smorzare la rabbia nei confronti di quella realtà da cui si sono sentiti rifiutati».

Come è possibile questo?
Tamanza: «L’outdoor therapy permette di uscire dal setting terapeutico cosiddetto classico, in studio. Il ché può rappresentare un vantaggio quando si ha a che fare con soggetti che non hanno volontà autonoma di chiedere aiuto, che accettano di affrontare il percorso obbligati dal fatto di essere sottoposti a procedimento penale. Così accade che parlando mentre si cammina, in un contesto naturale, durante un’esperienza di quotidianità vissuta assieme – e non limitata all’ora di setting in studio dove l’adulto tende ad essere visto come giudice – osservando come ognuno cammina coi propri tempi ma tutti arrivano a destinazione, i ragazzi iniziano ad osservare i loro interlocutori adulti con uno sguardo diverso. Iniziano a percepire il fatto che, anche quando qualcuno è in disaccordo con loro, non per forza li sta etichettando come delinquenti. Camminare ha un valore di attivazione mentale. Da lì ha inizio un processo di “bonifica” dell’immagine di sé, che spesso coincide con l’immagine stereotipata che la società ha attribuito loro e che inibisce a priori la loro spinta alla relazione».
Vincenzi: «Ad oggi, quella di cui stiamo parlando, è l’unica esperienza in Italia a presentare un dispositivo psicologico all’interno dell’equipe. Questo fa la differenza. A ciò si aggiunga l’importanza dei fattori gruppo e guida: chi fa fatica osserva il suo pari che ce la fa e lo prende ad esempio, mentre il fatto di lasciarsi guidare – affidarsi quindi – alla guida alpina e agli educatori presuppone un atto di fiducia».

Le buone idee per vedere la luce necessitano di sovvenzioni. Come si finanzia un progetto di questo tipo?
Vincenzi: «Il dipartimento di giustizia minorile crede molto in questa tipologia d’intervento ed ha dato un contribuito per finanziare questa edizione, così come l’Università Cattolica, da sempre attenta a tematiche educative di studio e ricerca. Una parte dei fondi derivano inoltre dall’aggiudicazione del bando di Fondazione Comunità Bresciana».
Tamanza: «Ad oggi si tratta di un progetto soggetto a bando, l’ideale sarebbe che a farsene carico fosse un’unione di territori e comuni nel contesto di un piano di zona». 

A questo proposito, cosa rimane da fare?
Tamanza: «L’auspicio futuro è che un simile modello d’intervento possa essere messo a regime in modo strutturato. I vantaggi sarebbero rilevanti sia a livello di ricaduta sociale sul territorio, che di natura economica. Ricordiamoci che investire su attività riparatrici è molto più dispendioso che investire su iniziative di carattere preventivo. Eppure in ambito socio-sanitario spesso si è più propensi a fare l’opposto».
Vincenzi: «Occorre inoltre trovare le risorse per intensificare e integrare maggiormente la fase preparatoria al viaggio e quella di rilettura insieme all’equipe. I momenti che precedono e seguono il viaggio vero e proprio sono di fondamentale importanza per il processo di comprensione e rielaborazione. Rimane poi da capire come il lavoro svolto possa essere “consegnato” nelle mani di altri operatori ed altri tribunali di competenza sui vari territori».