Non lasciamo che il terrore ci terrorizzi. Questo era l’appello del professor Riccardo Redaelli, docente di Geopolitica alla facoltà di Scienze politiche e sociali, all’indomani della strage del Bataclan e dell’attentato al jet russo. All’esperto di rapporti tra mondo arabo e occidente, autore tra l’altro del recente Islamismo e democrazia (Vita e Pensiero), chiediamo ancora una volta cosa sta succedendo. 

L'attacco a Bruxelles, a poco più di 48 ore dalla cattura di Salah Abdeslam, è una reazione a caldo o una strategia che, dopo Parigi, prosegue attaccando il cuore istituzionale dell’Europa? «Si sapeva da tempo che vi erano diversi piani per attacchi terroristici combinati in preparazione. E Bruxelles in quanto “capitale” dell’Unione Europea era un bersaglio perfetto, anche per via della presenza di forti cellule jihadiste in Belgio. Ma può essere che la cattura del super-ricercato Salah proprio a Bruxelles abbia in qualche modo accelerato la loro attuazione. Forse per timore che le rivelazioni di Salah, che starebbe collaborando con le autorità giudiziarie belghe, potessero in qualche modo compromettere le reti jihadiste attive nella città. È anche abbastanza evidente che le forze di sicurezza belghe sono state “saturate” dalla quantità di obiettivi da proteggere e piste da seguire e non hanno dispiegato al meglio le forze a protezione di obiettivi sensibili, e anche abbastanza evidenti, come l’aeroporto e le fermate della metropolitana vicine ai palazzi della Commissione Europea. Una certa “fragilità” già emersa in questi mesi, purtroppo».

Insomma, siamo in guerra? «No, non siamo in guerra. Tutta l’Europa sta affrontando una gravissima sfida di sicurezza; certo la più grave da decenni a questa parte, che espone tutte le città europee al rischio di attentati. Ma si tratta appunto di un problema di sicurezza. Il nostro nemico non è un esercito, non è un popolo, non è una religione. Dobbiamo affrontare e sconfiggere bande criminali fanatizzate. E dobbiamo farlo con tutte le armi lecite a nostra disposizione e con un forte lavoro di prevenzione e di sensibilizzazione delle comunità islamiche europee, per avere una maggiore collaborazione contro le frange fanatizzate di giovani musulmani. Dobbiamo davvero evitare di farci abbagliare dall’idea di essere in guerra, che significa vivere in trincea e con l’elmetto in testa. Perché non è così».

Chiudere le frontiere è una soluzione? «È solo un ottimo slogan per politici populisti che vogliono ottenere facile consenso. Dimenticando che molti dei militanti jihadisti vivono da tempo in Europa o sono addirittura cittadini europei. Oltretutto, chiudere le frontiere è semplicemente impossibile in un mondo globalizzato e interdipendente come il nostro. Questo non significa che non si debba alzare il livello di controllo e di intelligence dentro e fuori i Paesi europei, per cercare di individuare la minaccia prima che essa si realizzi. Cosa che rimane sempre la strategia migliore».

Nel frattempo non si ferma il flusso migratorio e l’Europa ha firmato un accordo con la Turchia che dovrebbe “gestire” il problema. Cosa ne pensa? «Un pessimo accordo: 6 miliardi dati senza controlli reali al “sultano” Erdogan (che agisce sempre più come un autocrate in patria) per liberarci la coscienza: rimbalzeremo decine di migliaia di profughi in Turchia evitando scrupolosamente di guardare a come i turchi tratteranno queste persone disperate. Anche se non abbiamo dubbi che verrà usata la mano pesante. Tutta l’Europa ha meno rifugiati del solo Libano o della Giordania: eppure ci sentiamo invasi. Non si può negare che il flusso migratorio sia un problema forte, ma è stato demonizzato per vergognose speculazioni politiche. In ogni caso, sappiamo che i flussi non si fermeranno certo per questo accordo. Ma la Germania lo voleva e, come sempre quando sono in gioco gli interessi tedeschi, l’Europa ha firmato».

Come si sconfigge politicamente lo stato proto-terrorista dell'Isis? «In Medio Oriente con l’azione militare che deve portare alla sua sconfitta. Ma questa è solo un tassello di una strategia più ampia, che non può che essere politica e culturale. La comunità internazionale deve agire per forzare un compromesso regionale sulla Siria, agendo in particolare su Arabia Saudita e Turchia, che hanno fomentato in passato l’islamismo sunnita più radicale. Occorre considerare gli interessi e i timori in gioco in Siria di tutti gli attori regionali e internazionali per costruire un’alternativa credibile ad Assad che non porti alla balcanizzazione del Medio Oriente. Bisogna poi lavorare per favorire una riduzione dello scontro geopolitico fra Arabia Saudita e Iran, che sta destabilizzando la regione. Fondamentale anche lavorare sul lungo periodo sul piano educativo e culturale per ridurre il settarismo religioso e la diffusione delle letture fanatizzate e dogmatiche dei precetti sciaraitici».

Ma l'azione militare non è l’unica soluzione. «La chiave di volta è anche socio-economica: il jihadismo è spesso la scelta di giovani frustrati, che si sentono impotenti e privi di ogni prospettiva positiva: intrappolati in un nichilismo reagiscono alla frustrazione facendosi condizionare dai predicatori di violenza e radicalità. È facile tutto ciò? Assolutamente no. È realizzabile in breve tempo? No. Ma ci sono “silver bullet”, ossia scorciatoie più facili? Ancora, no: il lavoro sarà lungo e difficile ma è l’unico che offra alternative credibili allo sfascio di oggi».

Non lasciamo che il terrore ci terrorizzi: è ancora valido il suo appello? «È ancora più valido oggi: il terrore del terrore fa il gioco dei terroristi. Per quanto sconvolgenti le immagini di Bruxelles possano essere non dobbiamo cedere alla paura. Così come il dolore per le 13 studentesse Erasmus morte in Spagna per una criminale leggerezza organizzativa non ci spinge a rinunciare a un programma che arricchisce i nostri giovani e tutto il sistema universitario. Dobbiamo purtroppo sapere che oggi, oltre ai morti per incidente stradale, per droga, per i crimini comuni, vi saranno anche dei morti per terrorismo. Ogni vita umana è preziosa e non dobbiamo rassegnarci alla normalità di queste morti: ma ossessionarci con il terrore non è la risposta. Combattere il fanatismo senza cedere alla xenofobia è il miglior modo per onorarle».