Giovedì 27 ottobre, con grandissima partecipazione di pubblico, è stato inaugurato il sesto ciclo di incontri sul teatro, coordinato dalla prof.ssa Lucia Mor nell’ambito del progetto Letteratura&Letterature, che si propone di cogliere, scoprire ed indagare nel panorama della letteratura internazionale ciò che Johann Wolfgang von Goethe definì “l’universalmente umano”. Ospite del primo appuntamento è stata la prof.ssa Maria Pia Pattoni, docente di Letteratura Greca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, che, affiancata dall’attrice Laura Mantovi, ha presentato l’Antigone di Sofocle, uno dei drammi più complessi della classicità greca, in cui la definizione fornitaci dal grande poeta tedesco assume i tratti di una profonda presa di coscienza: al di là di ogni pervicace affermazione di sé e dei propri ideali, nel finale, come esito degli intensi scontri che li hanno contrapposti nel corso dell'azione scenica, tutti i personaggi di questo dramma si trovano accomunati nella loro dolente e sofferta umanità. Dal 442 a.C., anno della sua rappresentazione nel teatro di Dioniso in Atene, per più di due millenni e mezzo Antigone non è stata soltanto la tragedia di Sofocle o la sua protagonista, ma è divenuta una sorta di genere letterario in cui si sono cimentati artisti e studiosi di assai varia formazione, soprattutto nell'ultimo secolo. Una delle ragioni di tanta fortuna è da individuare nel fatto che a un solo testo è dato di esprimere tutte le costanti principali della conflittualità insita nella condizione umana: l'opposizione vita-morte, uomo-donna, vecchiaia-giovinezza, uomo-dio, nomos-physis.
La scena è ambientata a Tebe. Eteocle e Polinice, figli di Edipo, si sono reciprocamente uccisi nella lotta per il possesso del regno, e Creonte, il nuovo re, ha ordinato che Polinice, il traditore che ha portato guerra alla sua stessa città, sia lasciato insepolto. Antigone, sorella dei due uccisi, per la quale le leggi divine sono al di sopra di quelle umane, decide di trasgredire gli ordini del re, quindi Creonte la fa chiudere viva in un antro di pietra. Inutilmente Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone, cerca di far comprendere al padre l'errore di questa sua decisione. Soltanto quando il vecchio indovino Tiresia lo ammonisce con terribili parole prospettandogli l'imminente sciagura per punizione divina si abbatterà sulla sua famiglia, il re, sconvolto, fa riaprire l’antro, ma Antigone si è appena impiccata ed Emone, che l'ha raggiunta all'insaputa del padre, si uccide sotto i suoi occhi. Alla morte di Emone non regge Euridice, la madre, che a sua volta si uccide. Già nel prologo emergono i tratti distintivi che caratterizzano la personalità di Antigone: l’incapacità di accettare il compromesso della coscienza, la vocazione all’atto eroico, la consapevolezza della nobiltà del proprio gesto e l’accettazione della morte. A fare da controcanto a questa triste condizione esistenziale, comune a numerosi personaggi sofoclei, è il canto d'ingresso del Coro (la pàrodo): l'immagine positiva del sorgere del sole, preludio di una nuova aurora per Tebe dopo la guerra che l'ha sconvolta, è in stridente contrasto con la rievocazione, nel prologo, della dinastia di Edipo, ormai distruttasi per implosione, a seguito di parricidi, incesti, suicidi, reciproche uccisioni.
Cinque saranno poi i canti corali (stasimi) che in questa tragedia descrivono in progressione il rapporto tra l’uomo e le divinità. Anche la posizione di Creonte appare chiara sin dalla sua entrata in scena, quando, nel cosiddetto “discorso della corona”, enuncia i principi basilari che a suo parere uno statista dovrebbe osservare per governare al meglio: essere giusto e non temere di prendere decisioni anche estreme; non anteporre un amico o un parente alla cosa pubblica; premiare i buoni e punire i malvagi. Di per sé questi principi non sono affatto sbagliati; c'e' tuttavia un aspetto del discorso di Creonte che doveva destare perplessità negli spettatori, ed è precisamente il suo primo atto di governo: l'esposizione del cadavere come specifica punizione prevista per il reo Polinice. Onorare i morti secondo le tradizioni era un motivo che stava particolarmente a cuore agli Ateniesi del V secolo; non a caso nella tragedia attica il tema della sepoltura impedita o pretesa ricorre ripetutamente, e ogni volta dà la misura del potere, della giustizia o dell'eccesso di chi lo esercita. E che lo spregio del cadavere del nemico sia un atto che offende le divinità e la comune moralità è tema antico quanto l'Iliade, dove gli dèi stessi, inorriditi dallo scempio al cadavere di Ettore, intervengono presso Achille perché restituisca il corpo del suo nemico al padre Priamo, per una degna sepoltura. Creonte insomma, pur tutte le sue buone intenzioni di corretto uomo di stato, parte già da una posizione problematica, che si aggraverà ulteriormente di scena in scena.
Nell’agone tra Antigone e Creonte, durante il quale la prima definisce una morte precoce nella sua condizione come un guadagno, emergono nettamente le posizioni opposte dei due co-protagonisti: l’una obbedisce alle leggi universali, che risiedono nella coscienza e sono conformi al volere divino, e tutela gli interessi della famiglia; l’altro osserva le leggi particolari della città, che ogni popolo fissa per sé, mirando solo al bene dello stato. Lontana dal giustizialismo di Creonte, secondo il quale “il nemico non è mai un amico, neppure da morto” e che non sa cogliere la profondità delle parole del suo stesso figlio Emone (“è buona norma imparare dalle parole degli altri, quando dicono cose giuste”), Antigone è mossa da un imperativo etico-religioso che fa di lei la prima eroina tragica che si sacrifica in nome di un’ideologia. La determinazione di Antigone è paragonabile in intensità solo alla cecità di Creonte, il cui comportamento viene descritto dall’indovino Tiresia come un atto sacrilego, una vera e propria forma di hýbris, per la quale alla fine il re piangerà sé stesso come una persona costretta a vivere controvoglia senza aver mai sperimentato, neanche in minima parte, la forza prodigiosa di quella philia che abbraccia tutti, retti e peccatori, e che è stato il principio cardine della vita di Antigone, così come ci ricorda la protagonista stessa: “Io sono nata per l’amore, non per l’odio”