di Giorgio Simonelli *

Di fronte a una serie infinita di commenti, celebrazioni, ricordi e immagini che hanno seguito la notizia della morte di Maradona non sono mancate nell’opinione pubblica, specie in quella che si esprime sui social, perplessità, prese di distanza e manifestazioni di dissenso. Due sono sostanzialmente le motivazioni critiche ed entrambe mi paiono abbastanza scontate e inutili. 

La prima che si concentra sull’eccessivo amore per un personaggio discutibile, consumatore di droga, vicino ad ambienti del crimine, evasore fiscale, finisce inevitabilmente nel vecchio, stucchevole dibattito sulla confusione tra “vizi privati e virtù artistiche”, quel dibattito che di solito si conclude con la formula “ma anche Caravaggio...”. 

La seconda riserva entra invece un po’ puerilmente nel merito della grandezza di Maradona atleta, contestando la definizione di più grande calciatore della storia, citando i vari Pelé, Di Stefano, Cruyff come alternative.  E qui ogni considerazione mi pare superflua, essendo impossibile il paragone tra chi si è trovato in contesti geografici e temporali lontanissimi tra loro. Il problema in realtà, come si suol dire, è un altro. 

La figura di Maradona non appartiene più da tempo alla dimensione reale, storica, ma al mito, è un eroe mitologico. La costruzione del suo mito è avvenuta a due livelli grazie alla congiunzione di due discorsi solitamente contrapposti che in questo caso si sono combinati. 

L’uno si esprime a livello popolare, nell’identificazione tra il popolo deli tifosi e un campione ammirato per alcune sue caratteristiche particolari: la spontaneità dei comportamenti (quel pallone lanciato alla folla nel giorno della sua presentazione napoletana), il suo parlare sempre chiaro, diretto senza diplomazie, i suoi atteggiamenti un po’ guappi, la sua ben nota generosità riconosciuta da compagni e amici scelti fuori dalla cerchia dei cosiddetti vip. Tutto ciò unito a un talento smisurato, che si esprimeva in giocate non solo efficaci ma anche altamente spettacolari (i famosi gol impossibili visti a ripetizione in questi giorni) in grado di alimentare le fantasie più strabilianti e poetiche. Un amico giornalista noto “maradonologo”, Darwin Pastorin, mi raccontò di aver udito un tifoso napoletano che sosteneva di aver visto Diego palleggiare con una goccia d’acqua. 

A questo versante popolare si è accompagnata l’attenzione, meglio la passione degli intellettuali. Scrittori, politici, registi hanno contribuito al culto di Maradona. A coinvolgerli c’erano molte componenti: l’incredibile storia della sua vita che dall’emarginazione arriva all’amicizia con un capo di stato; legami nati da tragiche vicende personali come quella di Sorrentino; comuni sensibilità culturali come nel caso di Emir Kusturica; il fascino (nel senso etimologico del termine), della cultura calcistica sudamericana, quella dimensione magica che ha ispirato tanta letteratura. 

Si può pensare a un titolo più maradoniano di "Splendori e miserie del gioco del calcio", il classico di Eduardo Galeano? Non è un caso che il mito di Maradona, nella sua versione colta, sia stato particolarmente coltivato in vari sud del mondo: l’America latina, il meridione italiano, quel mondo balcanico che vive tante affinità con l’immaginario sudamericano (e qui entra in campo nuovamente Kusturica). 

Non c’è affatto da sorprendersi né da indignarsi se la scomparsa di Maradona ha occupato tanto spazio e tanto rilievo nei media, facendo slittare ai margini dell’agenda altri temi e altre emergenze: si tratta dell’uscita di scena di una parte consistente del nostro immaginario e della nostra cultura.

Altro discorso è quello della ripetitività, della retorica, della banalità di tanti discorsi. Ma questo non è certo responsabilità di Maradona, piuttosto di chi non era consapevole della delicatezza e della complessità di ciò che andava ad affrontare: la mitologia.       

 

Docente di Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università Cattolica