di Lara Ferla e Paola Mastrolia
Un momento di riflessione interdisciplinare sulle difficoltà che caratterizzano l’attuale convivenza sociale, nella quale sono alimentati orientamenti di pensiero ma anche ideologie fondate sull’esasperazione delle differenze identitarie, culturali e religiose. Analoghe ideologie avevano condotto, tra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso, alla marginalizzazione e al successivo sterminio di interi gruppi sociali in quanto diversi per ragioni religiose, come gli ebrei, o per ragioni etnico-culturali, come i popoli nomadi.
Di grande attualità ed urgenza, in questo momento storico, è una riflessione sul concetto di “confine”, inteso generalmente nel suo senso più immediato – ma riduttivo – di delimitazione, di separazione tra entità geo-politiche, sociali e culturali disomogenee. Proprio la ricorrenza della Giornata della memoria induce a recuperare il significato più profondo del “confine”, che richiama una prospettiva di avvicinamento, di incontro, di impegno conoscitivo nei confronti dell’“altro”, il “diverso”.
Il relatore del Seminario permanente dei ricercatori Alessandro Provera ha evidenziato l’importante contributo che la letteratura può offrire a questa riflessione. Ricordando l’opera di alcuni autori, quali Scipio Slataper, Gianni Stuparich e Biagio Marin, che hanno vissuto l’esperienza del “confine” durante le vicende belliche della storia recente del nostro Paese, si è richiamata l’importanza della narrazione letteraria, come forma di testimonianza e come momento di ri-lettura critica di fatti che non devono essere dimenticati e che, pur nella loro tragicità, costituiscono una preziosa occasione per un approccio culturalmente e moralmente consapevole alle problematiche suscitate dalla convivenza tra diversi.
L’esperienza del movimento “Law and Literature”, come noto da tempo ripreso anche in Università Cattolica e rideclinato come “Giustizia e Letteratura”, ha dimostrato del resto in molteplici occasioni quanto numerosi e decisivi siano i punti di contatto tra dimensione letteraria ed elaborazione di soluzioni giuridiche, per affrontare problematiche che attraversano trasversalmente l’esperienza umana, al di là di confini storici, geografici o socio-culturali. Proprio alla luce dell’esempio di questi narratori, autentici “uomini di confine”, il giurista – ma anche ciascun cittadino – dovrebbe sentirsi chiamato a un atteggiamento di maggiore apertura di fronte alla diversità e ad un senso di responsabilità nei confronti dell’umanità che la stessa esprime.
A partire da queste premesse le riflessioni del relatore si sono poi concentrate sulla dimensione giuridico-penalistica, che nell’attualità manifesta in misura sempre più evidente la presenza di conflitti culturali, originati dalla convivenza di persone provenienti da contesti socio-culturali, oltre che giuridici, anche notevolmente differenti. Al diritto penale, considerato tradizionale baluardo dei diritti fondamentali della persona e del rispetto delle condizioni minime che assicurano una pacifica convivenza sociale, si richiede sempre più spesso un intervento repressivo nei confronti non soltanto della criminalità comune ma anche dei cultural crimes, fatti penalmente rilevanti commessi da soggetti che provengono da sistemi socio-culturali, oltre che giuridici, differenti.
Ripercorrendo i più significativi ambiti nei quali i reati culturalmente motivati trovano espressione, come i delitti contro la persona, sono state illustrate le ricadute sistematiche ed applicative dell’eventuale riconoscimento della differenza culturale a favore dell’autore del reato. Se è vero, infatti, che l’appartenenza ad un determinato modello socio-culturale costituisce un aspetto che non può essere ragionevolmente “rimproverato” all’autore di un reato, per altro verso le esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona e di garanzia dell’ordine pubblico e della sicurezza collettiva sottopongono continuamente al giurista ardui dilemmi etico-giuridici rispetto alla più corretta soluzione delle questioni problematiche.
In particolare, il trattamento in bonam partem per l’autore di un reato culturalmente motivato potrebbe essere interpretato come sottovalutazione delle esigenze di tutela della persona che tale reato subisca, che non può essere destinataria di una giustizia “affievolita” in ragione della propria provenienza culturale. Poiché gli strumenti della giustizia penale non sono in grado di intercettare, in profondità, la complessità dei conflitti culturali e le implicazioni che ne derivano, ad avviso del relatore sarebbe opportuno valutare nuove forme di risposta al reato, come la restorative justice.
Nel ricco dibattito che ha accompagnato la relazione del dottor Provera è emersa la necessità di adoperarsi, nell’attuale società moderna e globalizzata, per una chiara comunicazione dei valori cui va riservata una posizione preminente, in uno scenario vieppiù complesso e contraddittorio. In questo senso, dovrebbe essere offerta una testimonianza forte, attraverso strumenti giuridici e culturali, del carattere irrinunciabile dei diritti fondamentali della persona. Tali diritti, che non possono essere sacrificati per un malinteso senso di “rispetto” per la cultura altrui a prescindere dai suoi contenuti, costituiscono il nucleo attorno al quale avviare un dialogo comune orientato al rispetto della persona.
In questa prospettiva merita speciale attenzione l’esperienza della restorative justice che, nel suo significato più autentico, sollecita a recuperare il significato profondo del precetto penale in ordine alla promozione del riconoscimento dei valori e degli interessi ad esso sottostanti. Proprio le possibilità offerte dalle differenti forme di giustizia riparativa, come la mediazione, costituiscono un approccio promettente nei confronti dei conflitti culturali: promuovendo un reciproco avvicinamento tra l’autore e la persona offesa di ciascun reato, essa è in grado di coinvolgere anche le comunità di provenienza dei protagonisti del conflitto e di contribuire a superare o ad affievolire le contrapposizioni tra i sistemi socio-culturali con particolare riguardo all’esigenza di un riconoscimento condiviso dei diritti della “persona”.