I contagi da coronavirus stanno risalendo in tutta Europa e anche in Italia dove, seppur in maniera non esponenziale e più stabile, la maggioranza di essi avviene localmente e non per ritorni dall’estero. Dallo scorso 3 giugno è possibile per tutti scaricare l’App Immuni, il sistema informatico di tracciamento dei positivi al coronavirus che, nel rispetto della privacy, comunica al singolo utente di smartphone, in anonimato, di essere entrato in contatto con una persona risultata positiva al test per Sars-CoV-2 e così comportarsi di conseguenza, a livello di prevenzione, comunicazione e cautela.

Andrea SilenziCattolicaNews ha incontrato il dottor Andrea Silenzi - laureato in Medicina e chirurgia, specializzato in Igiene e Medicina preventiva e dottore di ricerca in Scienze biochimiche di base e di Sanità Pubblica nel nostro Ateneo, ora dirigente medico all’Istituto Superiore di Sanità e membro del Centro di ricerca e studi sulla Leadership in Medicina dell’Università Cattolica - che nei giorni scorsi ha condiviso, mediante un post nel suo profilo Facebook, la sua esperienza diretta dell’uso e del funzionamento della app.

Dottor Silenzi, ci racconti la sua esperienza dei giorni scorsi con la App Immuni: come ha funzionato e quali sono stati i meccanismi attivati? «Immuni rappresenta uno strumento importante per affrontare il lungo inverno che abbiamo di fronte, uno strumento in più per aiutare l’attività di tracciamento dei contatti svolta dai professionisti dei Dipartimenti di Prevenzione e, soprattutto, per aiutare tutti noi a vivere con maggior tranquillità la nostra quotidianità. Personalmente, dopo aver seguito sin dall’inizio il tema del contact tracing digitale dal punto di vista professionale quale supporto di alto valore alla strategia della tripla T (testare, tracciare e trattare) messa in campo sin dal 21 febbraio nelle regioni più colpite dalla pandemia, non appena disponibile ho subito scaricato e attivato l’app anche da utente. Da quel momento sono passati alcuni mesi di monitoraggio attivo senza segnalazioni, Immuni lavora in background e quasi ci si dimentica di averla con sé. Una sera di settembre però, all’improvviso sullo schermo del mio iPhone è comparsa una notifica con un alert di color rosso: “rilevata esposizione a rischio con una persona Covid-19 positiva”».

E poi che cosa è successo? «Grazie alla notifica ho avuto modo di entrare in contatto con i colleghi del Dipartimento di Prevenzione dell’Asl Roma 1 e, dopo l’indagine epidemiologica e la valutazione del rischio professionale, contando 5-6 giorni dal giorno dell’ipotetica esposizione segnalata da Immuni (tempo di attesa necessario dovendo considerare l’eventuale incubazione del virus), mi sono recato al drive-in del Santa Maria della Pietà per fare il tampone. In un’ora ho fatto tutto, grazie all’eccellente organizzazione di medici, infermieri, assistenti sanitari e volontari della Protezione Civile. In 48 ore ho ricevuto sia una chiamata automatica sia un sms che mi comunicavano il risultato del test: “negativo”. In quel momento, rivivendo l’organizzazione che da medico di sanità pubblica ho in altri contesti contribuito a promuovere, ho pensato a quanto siamo fortunati in Italia ad avere un Servizio Sanitario Nazionale pubblico e universale che tuteli la nostra salute».

Dal 5 ottobre è partita la campagna governativa di sensibilizzazione all’uso di questa app. Secondo gli ultimi dati sono 6,7 milioni le persone che l’hanno scaricata sul proprio smartphone, attualmente è usata da circa il 18% della popolazione italiana tra i 14 e i 75 anni, ma sappiamo che dev’essere utilizzata da almeno il 60% delle persone affinché il sistema sia efficace. Perché, secondo lei, così tante persone sono ancora restie all’uso di questo sistema? «Credo che alla base ci sia un problema di timore per la privacy e di scarsa conoscenza del meccanismo di funzionamento, che paradossalmente è totalmente anonimo per la persona che la utilizza. Serviva e servirà un maggior sforzo di comunicazione a tutti i livelli. Come dicevo l’app non è la soluzione, non è probabilmente uno strumento perfetto, ma, di certo, è uno strumento utile in più per tutelare la salute della collettività e, pertanto, ne va pienamente promosso l’utilizzo».

Vuole suggerire un nudge, una “spinta gentile”, che possa davvero far comprendere l’importanza di essere in molti per aiutarci tutti? «Essere in molti per aiutarci tutti è un bellissimo slogan, dovrebbe essere questo lo spirito con cui promuovere una grande campagna di comunicazione e informazione per la cittadinanza. Altro spunto importante è il convincere con l’esempio e promuovere la condivisione delle buone esperienze: ho deciso di scrivere un post su Facebook per raccontare la mia storia con Immuni e ringraziare i colleghi dell’Asl Roma 1, attivi 7 giorni su 7 come nelle altre Asl/Ats per difendere la salute della collettività con l’esecuzione dei test e delle indagini epidemiologiche».

Lei ha lavorato nei mesi più duri e complessi dell’emergenza sanitaria nella Direzione Strategica dell’Ats di Brescia: una grande sfida non solo personale e professionale, ma anche per la Sanità pubblica. Com’è stata questa prima fase della pandemia “sul campo”? «È stato qualcosa di impressionante, credo non dimenticherò mai quei 45 giorni di fuoco tra il 21 febbraio e i primi di aprile. Oggi si dice che come sistema Paese abbiamo peccato nella cosiddetta “preparedness”, intesa come lo stato di preparazione/prontezza a rispondere a un potenziale evento disastroso di improvvisa insorgenza. Probabilmente è vero, non eravamo adeguatamente preparati ad affrontare un nemico invisibile e così insidioso, nonostante i medici di Igiene e Sanità Pubblica avessero messo in guardia da tempo l’opinione pubblica sui rischi pandemici corsi da un mondo così frenetico e globalizzato, promuovendo un approccio di salute globale, di “One Health”. Tuttavia, quello che è accaduto nelle province di Lodi, Piacenza, Bergamo, Cremona e Brescia è stato quanto più simile a uno tsunami: devastante. Puoi anche essere/sentirti pronto ma è impossibile evitarne l’impatto distruttivo quando arriva. In pochi giorni si sono riversati nei Pronto Soccorso migliaia di persone con insufficienza respiratoria severa che necessitavano di supporto ventilatorio. Abbiamo scoperto di poter fare ciò che prima sembrava impossibile, modificando assetti organizzativi e schiacciando i livelli di decisione, lavorando in team, promuovendo nuove forme assistenziali e l’utilizzo delle nuove tecnologie. Un’esperienza unica che spero ci aiuterà a gestire la seconda ondata durante questo lungo inverno che abbiamo di fronte e che riguarderà tutta Italia stavolta, non più soltanto alcuni territori».

Lunedì scorso le matricole della facoltà di Medicina e chirurgia della nostra Università hanno iniziato il primo anno di lezioni e di vita nel campus: qual è il suo messaggio per loro che, fra qualche anno, saranno chiamati a scelte di competenza e professionalità accanto a chi soffre e in un mondo medico già profondamente trasformato? «Appassionarsi sempre con curiosità e abituarsi sin da subito a sentire la responsabilità del proprio ruolo, unico, di medici. Si tratta di un privilegio e come tale va vissuto. Durante i sei anni di studi ci sarà tempo per capire come orientare le proprie competenze e le proprie attitudini, se cimentarsi in un ambito clinico (internistico o delle chirurgie) o in un ambito di salute pubblica. In ogni caso sarà per loro fondamentale fare sintesi della complessità che li circonda, imparare a essere leader di team multidisciplinari e multi-professionali. Il palcoscenico non è da tempo più quello dello “studio del medico” ma quello delle reti socioassistenziali di una sanità organizzata a più livelli di intensità tra ospedale e territorio. La sanità che verrà ha bisogno di medici con un forte impronta etica, morale e professionale, capaci di leggere e comprendere il contesto di riferimento, di guidare il cambiamento traducendo le nuove soluzioni tecnologiche e digitali nell’atto di cura, che tengano sempre a mente lo scopo ultimo dell’essere medico: tutelare la salute, curare la malattia e farsi prossimo ai malati e ai più fragili».