Nato nel 1912, cappellano militare durante gli ultimi mesi della campagna di Russia, laureato in Lettere all’Università Cattolica, don Italo Ruffino sostiene che bastano tre copricapi per raccontare la sua vita: «Quando morirò, ho chiesto che sulla mia bara vengano messe solo tre cose: il mio berretto da prete, l'elmetto del reggimento di cavalleria Savoia, e il basco bianco della facoltà di Lettere». Pochi mesi dopo il suo centesimo compleanno, don Ruffino è tornato nell’ateneo dove ha studiato fino al 1950 per presentare il suo libro Bianco, rosso e grigioverde, nel quale ripercorre la sua esperienza in Russia e gli ultimi mesi prima della Liberazione.

Ma una vita lunga come quella di don Ruffino non può essere racchiusa nel racconto di due o tre anni, per quanto significativi: per farsi un’idea più precisa della sua storia occorre partire dall'infanzia, segnata dalla morte prematura del padre, e dai successivi anni di studi, che, come dice lo stesso don Ruffino, furono piuttosto insoliti per un aspirante sacerdote. «Nel 1922, anno della riforma della scuola voluta dal ministro Gentile, feci un anno di classe complementare, per poi frequentare il secondo, il terzo e il quarto anno di istituto tecnico inferiore e il primo anno di ragioneria. Per questo motivo la mia preparazione in latino era inferiore rispetto ai miei compagni in seminario, che avevano invece frequentato il ginnasio». Poi tre anni di liceo filosofico, segnati dallo studio costante della filosofia sistematica a scapito di altre materie come greco e storia dell’arte.

Nel 1935, finalmente, Italo Ruffino viene ordinato sacerdote: è un prete particolare, non solo perché il suo percorso di studi lo distingue da quasi tutti i suoi colleghi, ma anche per la sua apertura nei confronti delle Chiese separate, sia occidentali che orientali. Le prime le ha conosciute in famiglia, «tramite due amiche anglicane di mia nonna», mentre alle Chiese orientali è stato introdotto da «un sacerdote della parrocchia di san Massimo che era sottosegretario della Congregazione delle Chiese orientali a Roma e mi parlava spesso di tali chiese, sia cattoliche che ortodosse».

 

 

La passione per il mondo orientale influenza anche i suoi studi universitari alla Cattolica di Milano, dove don Ruffino arriva quasi per caso: «Non riuscii a convincere il mio arcivescovo a mandarmi a studiare teologia alla Gregoriana o all'Istituto Orientale a Roma, ma alla fine lo convinsi a lasciarmi studiare in Cattolica. Qui, seguendo i corsi liberi dell'università, che all'epoca erano otto, potei scegliere corsi che mi interessavano come Diritto canonico e soprattutto Filologia bizantina e Filologia slava, per avvicinarmi ulteriormente al mondo orientale. Quell'anno il corso verteva sulla dinastia degli Isaurici nel Medio Oriente cristiano, e io seguivo queste materie per compensare il fatto di non averle potute studiare a Roma. Ancora oggi il mio cuore è nell'Oriente cristiano».

Nei suoi anni da studente all'Università Cattolica, Ruffino conosce anche padre Gemelli, fondatore dell'istituto, del quale conserva un ricordo particolare: «Padre Gemelli era noto per la sua impulsività ed irruenza, ma con me fu molto paterno in una lettera che mi inviò quando tornai dal fronte. In questi giorni ho cercato quella lettera per portarla qui in università ma purtroppo non l'ho trovata».

La laurea in lettere arriva però soltanto nel 1950: prima, infatti, c'è stata la guerra, che Don Ruffino ha vissuto prima sul fronte russo al seguito della divisione “Torino”, poi a casa, in Piemonte, dove ha dato il suo contributo alla Resistenza. I mesi passati in Russia don Ruffino li ha raccontati nel suo libro, dove però si parla quasi esclusivamente di ciò che accadde ai militari italiani: in Russia, però, combattevano anche i tedeschi, che «a differenza dell'esercito italiano, avevano soltanto un cappellano cattolico ed uno protestante per divisione. Tuttavia molti religiosi erano lì come soldati e cercavano di rendersi utili ai loro confratelli. Ricordo in particolare un grande teologo moralista, padre Häring, che era capitano della Wehrmacht. Ovviamente svolgeva il suo servizio da ufficiale dell'esercito, ma non dimenticava mai di essere sacerdote: perciò, mentre durante la ritirata molti reparti tedeschi entravano nelle case dei russi armati e si prendevano ciò che volevano con la forza, Häring obbligava i suoi soldati a lasciare le armi fuori dalle abitazioni, perché per lui entrare in quelle case significava chiedere aiuto e non razziare».

Dopo aver rischiato di morire a causa del gelo dell'inverno russo e dopo aver subito l'amputazione di due dita dei piedi, don Ruffino torna a casa, ma la vita per lui non è certo più semplice: sono i mesi della caduta di Mussolini e della Resistenza, e tedeschi e repubblichini cercano in più di un'occasione di arrestarlo. «Più di una volta, con telefonate o tramite finte penitenti in confessionale, hanno cercato di farmi dire qualcosa contro il regime per potermi “pizzicare” e arrestare. Una volta mi telefonarono per dirmi che c'era da assistere un partigiano ferito a Carmagnola, in modo da potermi arrestare. Io risposi che tra Carmagnola e Torino, dove mi trovavo, c'erano almeno trenta sacerdoti, e che se davvero quell'uomo era moribondo, avrebbero fatto meglio a chiamare un prete che abitasse più vicino. Allora mi chiesero di dire almeno “Viva Stalin!”, ma io risposi che ero abituato a dire soltanto “Viva Gesù”».

Con la fine della guerra, finalmente Don Ruffino può vivere in pace e svolgere il suo incarico prima come vice parroco poi come parroco, fino alla pensione. Anche dopo il pensionamento, però, don Ruffino non è rimasto inattivo, venendo nominato prima «canonico del Duomo poi, approfittando della mia preparazione archivistica, archivista del Capitolo del Duomo». A chi gli chiede se secondo lui il ruolo del cappellano militare sia cambiato in qualche modo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, don Ruffino risponde così: «Formalmente sì, ma in sostanza i compiti del cappellano sono rimasti gli stessi: tenere accesa la fiamma della fede e offrire a tutti l'opportunità di avere qualcuno con cui parlare. Quando mi trovavo in Russia la mia porta, o l'ingresso della mia tenda, era sempre aperta, tranne ovviamente quando c'era dentro qualcuno che mi doveva parlare. La sola presenza del cappellano era un richiamo, e devo dire che, pur avendo avuto a che fare in quel periodo con gente di tutti i tipi, credenti e non credenti, non ho mai sentito bestemmiare nessuno a mensa ufficiali, né ho mai sentito nessuno esprimere qualche riserva sulla Chiesa o sul suo operato. Non so se alcuni si trattenessero per un riguardo nei miei confronti, ma questa è la verità».

Non si pente di essere andato in guerra al seguito dell'esercito fascista, don Ruffino: «Non me ne vergogno, ho fatto la mia parte, così come un medico militare fa la sua. Non mi vergogno neppure di essermi messo i gradi e le stellette, perché per fare il cappellano militare erano indispensabili: se non le avessi messe, per i soldati sarei stato un estraneo».