È stata l’Ifigenia classica, quella che va da Euripide a Lucrezio a dare il via, giovedì 29 ottobre, al primo degli otto incontri dedicati al teatro promossi dalla facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere in collaborazione con il Ctb Teatro stabile. Anche il secondo appuntamento previsto in calendario sarà dedicato all’Ifigenia, questa volta quella goethiana che verrà messa in scena dal regista Cesare Lievi, direttore artistico del Ctb, il 17 e 29 novembre. A ripercorre la nascita e l’evoluzione del mito greco che si riferisce alla figura mitologica della figlia di Agamennone e Clitemestra è stata la lezione di Maria Pia Pattoni, docente di lingua e letteratura greca. 

Il nome di Ifigenia evoca immediatamente alla nostra mente l’antefatto mitico della guerra di Troia: il sacrificio della figlia primogenita di Agamennone, imposto dalla dea Artemide come condizione per la partenza delle navi greche alla volta di Troia. Nell’Iliade di Omero non si fa menzione di questo episodio: la prima testimonianza a noi nota è in un poema minore del ciclo epico troiano, i Canti Ciprii attribuiti a Stasino. Ma la prima compiuta attestazione letteraria del sacrificio di Ifigenia è la rievocazione lirico-narrativa del Coro dell’Agamennone di Eschilo, una tragedia che verte sul ritorno dell’eroe da Troia nella sua casa ad Argo, dove troverà la morte per mano della moglie Clitemestra, che in questo modo intende vendicare l’uccisione della figlia. La rievocazione del Coro, che è inserita nel canto d’ingresso, funge da antefatto della vicenda drammatizzata. Qui troviamo tratteggiato il conflitto interiore tra gli affetti privati del padre Agamennone e il suo ruolo di re e capo militare, mentre Ifigenia è rappresentata come la vittima che si ribella al sacrificio.

Euripide, cinquanta quattro anni dopo, in Ifigenia in Aulide, approfondisce questo aspetto e conduce uno scavo straordinario sul conflitto tra il privato e gli affetti familiari da un lato e, dall’altro, le ragioni di stato. La tragedia si apre con un dialogo molto intenso fra Agamennone e un suo fedele servo dove il re si caratterizza in modo assai differente rispetto all’omonimo eschileo. Non gli appartiene più il furor imperandi dell’Agamennone eschileo, ma è descritto più come una vittima che un agente. E per un attimo anche i presenti, davvero numerosi nell’aula magna Tovini, hanno rivissuto la tensione e i cambiamenti d’opinione (metabolai) di Agamennone grazie alla lettura e all’interpretazione di alcuni passi del prologo da parte di Giuseppina Turra, attrice del CTB. La Pattoni ha concluso il suo intervento citando lo storico greco Tucidide (La guerra del Peloponneso) e l’Ifigenia tra i Tauri di Euripide. Il mito di Ifigenia colpì molto anche i latini, ma non c’è nulla di comparabile con i testi greci. Ad affermarlo è Guido Milanese, docente di Cultura e civiltà d’Europa, riferendosi ai testi di Ennio e di Lucrezio e alle numerose testimonianze iconografiche ritrovate nell’area greca, latina ed etrusca. Lucrezio  all’inizio del De Rerum natura riscrive il racconto fatto da Eschilo ma non dice niente di quello che accadrà a Ifigenia perché agli epicurei non interessano le vicende divine; secondo loro gli dei non intervengono nelle vicende umane e quindi la ragazza sarebbe stata realmente uccisa. Da sottolineare che l’intensità del racconto mitologico  era tale - lo scrive Cicerone - da impressionare talmente il mondo romano al punto da essere raffigurato in molte abitazioni di lusso. Per il mondo latino la storia di Ifigenia, ovvero quella di un padre che uccide la figlia, era insopportabile.  Così si affermò una variante “buonista” del mito  come leggiamo  nelle Metamorfosi di Ovidio, dove tutto è liscio e tranquillo, la sua crudeltà assoluta senza remissione qua diventa parte di un bel raccontino. Ma perché Lucrezio ha scelto di scrivere questa storia all’inizio della sua opera? - si chiede Milanese -. Forse perché il racconto era molto diffuso così come la terribilità e l’insopportabilità  del male erano diffuse in tante aree del mondo.

Che senso ha toccare questo nucleo dell’indicibile sacrificio del figlio? È un dato che troviamo anche nei racconti più terribili del ‘900, per esempio quelli di epoca hitleriana, a dimostrazione che questo è possibile, che accade. E subito viene  in mente il sacrificio di Isacco, anche se non è la stessa cosa, tiene a precisare lo studioso; c’è un’apparente uguaglianza che ci mette di fronte invece alla profonda lontananza, alla irriducibilità antropologica  dell’approccio del mondo classico rispetto a quello biblico. Nel racconto di Abramo è Dio che chiede direttamente di sacrificare il figlio e non un indovino come accade invece ad Agamennone. Qui il Dio parla all’uomo; nel mondo antico è muto, è un dio che si vendica e che chiede un sacrificio per placare la sua ira. La distanza irriducibile è che il male assoluto nel mondo antico entra nella vita dell’uomo, non può essere redento  perché non c’è una progettualità come invece avviene con il mondo ebraico.  Nella lettera agli Ebrei, il male ha un senso perché inserito in un orizzonte più ampio, fa parte di una progettualità ed è qui che avviene uno scontro fra il mondo romano ed ebraico. Per gli epicurei c’era l’espulsione del “divino”, l’uomo è uomo, vive in un altro mondo e fa a meno del divino. Un’antica questione quella dell’uomo posto di fronte al male che ancora oggi sollecita domande profonde al vivere nostro.