Hanno frequentato la scuola di giornalismo dell’Università Cattolica e sono in prima linea, su diverse testate, nel racconto della pandemia da Coronavirus. Ma testimoniano tutti insieme che i media, soprattutto online, restano ancora vitali. Le voci dei nostri reporter in una serie di articoli


«Un cronista di un canale all news non può permettersi mai di spegnere il telefono. Alle due del mattino ha cominciato a squillare e mi hanno comunicato la notizia del primo contagio da coronavirus. Alle tre siamo partiti dalla Rai e alle quattro circa siamo arrivati davanti all’ospedale di Codogno. Abbiamo cominciato ad andare in diretta con le informazioni che avevamo. Dirette che informavano i cittadini di questa notizia clamorosa». Paolo Maggioni, uno dei volti di Rainews24 in prima linea fin dal giorno zero dell’emergenza coronavirus in Italia, racconta le prime ore in cui il nostro Paese si è scoperto vulnerabile. 

«In quel momento era difficilmente immaginabile che la situazione si evolvesse e arrivasse a essere come quella di oggi» racconta. «L’epidemia scoppiata a Wuhan sembrava tremendamente lontana da noi. Nei giorni precedenti, poi, stavano arrivando anche buone notizie dall’ospedale Spallanzani e nessuno poteva immaginare tutto questo».

Cosa ricorda in particolare? «È stata una giornata un po’ d’incoscienza e siamo partiti di getto senza grandi dispositivi di protezione. Non si aveva la reale percezione di quello che stava avvenendo. Tornando indietro non lo rifarei. Ricordo la situazione di straniamento di chi arrivava in ospedale perché magari non si era informato prima di uscire di casa. C’era grande apprensione e paura per il cosiddetto paziente uno e per tutti quelli che erano stati in contatto con lui. Questa è la cartolina di un mese fa». 

Cos’è cambiato per il giornalista Paolo Maggioni? «Quel giorno ha segnato la fine delle abitudini professionali: la vicinanza fisica con i propri interlocutori e colleghi, la possibilità di intervistare le persone senza protezioni. Io dopo il periodo di isolamento sono tornato a lavorare. Ora indosso mascherina e guanti tutto il giorno. Temi quasi il contatto con gli altri e diventi ipersensibile anche alla distanza. Per esempio se sei a due metri da una persona cerchi di metterne tre. Si cerca di stare attenti anche quando ci si muove in macchina con la troupe, perché comunque non si va in giro da soli».

E sul lato umano cosa ha segnato Covid-19? «Questo è un periodo di grande sospensione di contatti e di relazioni con gli altri che non siano mediate da uno schermo. Le nostre abitudini sono sospese, così come tutte le cose che la vita ti poteva dare prima. Non so però se sia un cambiamento definitivo. Sicuramente ora siamo tutti più guardinghi perché abbiamo capito la pericolosità del virus. Vedremo se ripenseremo la nostra quotidianità e se la cambieremo. Ora la cosa che trasmette più inquietudine è l’incertezza su quando finirà questa situazione. Nessuno può dirlo con certezza e non si sa quando si metterà la parola fine a questa storia».

Lei ha parlato di sospensione della quotidianità, però il giornalismo non può permettersi di dire stop. «Il servizio pubblico non può e non deve fermarsi. Deve continuare a compiere la sua missione al massimo delle sue possibilità e deve farlo con quanta più qualità possibile. Ovviamente anche il giornalismo subisce delle limitazioni per motivi di sicurezza sanitaria. Nell’esercizio della professione giornalistica, quindi, bisogna anche essere cauti perché non si può ignorare che anche i giornalisti sono potenzialmente soggetti al contagio. Bisogna comunque prendersi i rischi per un bene superiore qual è il dovere di informare e il diritto dei cittadini di essere informati».