Domenica 20 e lunedì 21 settembre gli italiani si recheranno alle urne per decidere, in concomitanza con le elezioni regionali e comunali, se confermare o meno la riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, portando i deputati alla Camera da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Si tratta di un referendum confermativo che, a differenza di quello abrogativo, non prevede il raggiungimento di un quorum di affluenza, per cui l’esito è valido indipendentemente dalla percentuale di partecipazione degli elettori. Per fare chiarezza sul tema e capirne qualcosa di più abbiamo chiesto agli esperti dell’Università Cattolica di entrare nel vivo della questione al di là delle ragioni partitiche che dividono il Paese. Il nostro Speciale referendum


di Paolo Balduzzi *
 
Vittoria del Sì o vittoria del No: cosa succederà nei due possibili scenari? La risposta più semplice, apparentemente, si ha con la vittoria del No: dal punto di vista istituzionale, infatti, si confermerebbe lo status quo ormai ben noto. Dal punto di vista politico, invece, le cose sarebbero meno semplici. Innanzitutto, potrebbero esserci ripercussioni sulla tenuta del Governo, anche se il premier sul tema non si è mai particolarmente esposto e, soprattutto, ai membri della maggioranza oggi conviene davvero poco rischiare nuove elezioni. Inoltre, si confermerebbe il trend per cui le riforme costituzionali vengono bocciate dalla popolazione. Si tratterebbe di un ulteriore grosso macigno sulla possibilità che altre riforme costituzionali, magari più utili, vengano perlomeno tentate in futuro. 

Molto più interessante tuttavia riflettere su cosa accadrebbe nel caso di vittoria del Sì, se non altro perché è lo scenario – sondaggi alla mano - al momento più probabile. Partiamo dai benefici, anche se la lista non sembra decisamente lunga: un taglio ai costi della politica di difficile quantificazione, ma stimata nei proponenti della riforma in circa 100 milioni di euro annui. Un risparmio simbolico, certo, ma poco rilevante dal punto di vista quantitativo, se consideriamo il valore annuale del prodotto interno lordo (1600 miliardi di euro), quello della spesa pubblica (circa 800 miliardi), quello della spesa per pensioni (300 miliardi) o anche solo quello della spesa per interessi sul debito (80 miliardi). 

Difficile invece credere che aumenterà l’efficienza o migliorerà la qualità dei lavori delle camere: il bicameralismo perfetto non viene intaccato, i regolamenti neppure. A questo proposito, qualcuno suggerisce che gli stessi risparmi di spesa si sarebbero più facilmente ottenuti tagliando gli stipendi e non tagliando i parlamentari, il che potrebbe essere contabilmente vero. Ma resta il dubbio: quale sarebbe l’effetto di un taglio di stipendio sullo sforzo e la qualità del lavoro dei parlamentari? Con alta probabilità, molto negativo. 

Arrivando agli aspetti negativi, la lista è ancora più corta: di fatto, nessuno. Certo, diminuirà il rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti, che considerando solo la Camera ci posizionerebbe addirittura all’ultimo posto in tutta Europa. Senza dimenticare che quando la Costituzione entrò in vigore, nel 1948, la popolazione era inferiore a quella attuale. Tuttavia, in un contesto bicamerale perfetto ad elezione diretta come quello italiano, bisognerebbe considerare la somma di deputati e senatori (questo ci porterebbe più vicino alla media europea); inoltre, spaziando oltre il confine europeo, si trovano esempi di democrazie antiche e ben funzionanti che avrebbero un rapporto tra eletti ed elettori ancora più basso (gli Stati Uniti su tutti). Insomma, l’argomento ha un certo valore, ma solo di principio. E forse più utilizzabile a livello locale che nazionale: infatti, seppur alcuni correttivi garantiscano le regioni più piccole come Molise, Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige, altre regioni come Umbria e Basilicata sperimenteranno un taglio di senatori di oltre il 50% (da 7 a 3). 

Ma si può davvero affermare che la qualità della democrazia sarebbe inferiore riducendo il numero dei parlamentari? Forse che i comuni o le regioni funzionino peggio, o che i cittadini si sentano meno rappresentati, dopo la “cura dimagrante” dell’ultimo decennio sul numero di rappresentanti negli enti locali? E cosa dire allora di consigli regionali così eterogenei nella composizione? In Lombardia ci sono 80 consiglieri regionali per 10 milioni di abitanti, in Calabria invece ci sono 30 consiglieri regionali per 2 milioni di abitanti: di fatto un rapporto di rappresentanza doppio in Calabria rispetto alla Lombardia. Dovremmo concludere che la qualità della democrazia sia diversa nelle due regioni? La qualità della democrazia non dipende solo, se mai davvero dipende, dalla dimensione delle istituzioni, ma anche e soprattutto dai meccanismi di controllo e disciplina degli eletti. In sintesi, somma, questa riforma costituzionale si può sostenere (o bocciare) a cuor leggero e non cambierà molto per il futuro del nostro paese.

* docente di Scienza delle Finanze, facoltà di Economia, campus di Milano


Credits foto in alto: Umberto Battaglia