Ha 26 anni, una laurea in Scienze dell’educazione nella sede di Brescia e dall’ottobre 2018 vive a Samo, in Grecia. Michele Senici (a sinistra nella foto) lavora presso Mazì (insieme, in greco), una scuola che accoglie i bambini rifugiati del campo profughi dell’isola, che non hanno accesso al sistema dell’istruzione pubblica. Ogni giorno circa 150 studenti tra i 12 e i 17 anni trovano tra le aule di Mazì un rifugio sicuro che offre loro un pasto caldo, l’opportunità di imparare e crescere insieme e il supporto psico-sociale necessario per affrontare la vita difficile che vivono ogni giorno nell’hotspot.
Il successo di Mazì ha spinto la Ong Still I Rise, fondata nel maggio 2018 da Nicolò, Giulia e Sarah, tre giovani entusiasti e volenterosi come Michele, a varcare le frontiere greche per aprire una scuola in Turchia, proprio lì da dove gli studenti di Mazì partono prima di approdare a Samo. Michele è pronto a ripartire.
La missione a Samo del Centro di Ateneo per la Solidarietà internazionale, svoltasi a settembre, è stata l’occasione per incontrare Michele e rivolgergli alcune domande.
Qual è la grande realtà nascosta dal clamore delle polemiche politiche sui migranti? «Potrebbe suonare come un’ovvietà, ma la grande realtà nascosta è la marea di esseri umani, donne, uomini, bambini, minori non accompagnati che si cela dietro alle statistiche, ai numeri, ai successi e agli insuccessi politici sbattuti sulle prime pagine e sulle copertine dei media. È una non-banalità che dovremmo imparare a riconoscere: dietro le scelte politiche della nostra Unione Europea, ci sono le storie di vita di Mahdi, Fateme, Mobina, Mohammed, Ibrahim che troppe volte soccombono dietro alle scelte, alle propagande, ai discorsi e alla parole. Storie che rischiano di passare in secondo piano anche attraverso le mie parole. Ci sono uomini e donne come noi dentro a questa storia, persone che però hanno staccato il biglietto sbagliato alla lotteria del luogo di nascita. Riappropriarsi della nostra umanità condivisa, questo credo sia punto di partenza».
Qual è l’esperienza più forte che hai vissuto nel tuo ruolo di cooperante? «Si tratta di una vicenda umana. È la storia S., accompagnato dal fratello I. e dalla sorella A. S. è un bambino di 12 anni bloccato su una sedia a rotelle da una malattia neurodegenerativa. L’Unione Europea, lo Stato Greco, l’UNHCR hanno accolto a Samo questa famiglia, venuta dal mare, in una tenda di plastica arroccata sulle ripide pendici del loro campo profughi per più di un mese. Solo grazie alla tenacia del mio collega Mattia la famiglia ha ricevuto un’abitazione vera e propria, certificata come adeguata per la condizione di S. Peccato per i diciassette scalini ad angolo che dividono l’ingresso dal piano strada. Il peggio tuttavia è successo quando la famiglia è stata trasferita insieme ad altre 401 persone verso il campo di Corinto nella Grecia continentale. È stato comunicato loro che la loro sistemazione sarebbe stata nuovamente una tenda, poi si sarebbe provveduto a cercare un luogo più adeguato. Al porto, durante il transfer, un coordinatore di un’altra Ong sul campo parlava con la referente di UNHCR, che lodava il lavoro svolto per la pianificazione di questo transfer. Ecco, in quel momento mi sono sentito solo, davvero solo».
Qual è il primo aiuto che si può dare ai migranti più giovani nel loro passaggio dalla fuga da una casa che non hanno più al tentativo di integrazione in Europa? «Sono convinto che la vera necessità sia la formazione. Per comprendere la situazione di Samo, ma più in generale delle isole greche, dovreste prendere la carta internazionale dei diritti dell’infanzia e vedere come ogni articolo – ogni diritto sia negato ai minori che qui transitano. Infatti non c’è cibo a sufficienza, acqua potabile, vestiti consoni alla stagione, letti per dormire, abitazione degne di tale nome, privacy, supporto medico o di salute mentale. Nulla. Eppure resto certo che l’urgenza più grande sia formare i giovani dentro a una scuola libera, luminosa, ariosa, bella. Dire loro che l’Europa che sognano non è quella che hanno intorno in questo presente, perché nemmeno noi europei vorremmo che le cose stessero così, spiegare loro quanto sia importante imparare l’inglese o il greco, perché solo così potrai capire i tuoi doveri e lottare per i tuoi diritti. Spiegare loro che il futuro è nelle loro mani. Dobbiamo seminare per il futuro, oppure tanto vale estinguerci fin da subito».
Che cosa significa per te integrare? «A integrare preferisco il verbo abbracciare. Rispondo in questo modo perché trovo che abbracciare abbia un suono bello, meraviglioso, armonioso, pieno di suoni ampi, grandi, avvolgenti. Integrare mi suona come un ingranaggio, ci sono tutte quella consonanti, che sembra debbano stritolarci non appena. Mi piacerebbe un’Europa che abbraccia e che si lascia abbracciare, tutto qui. Un abbraccio di prossimità, libertà, equità, un abbraccio che instilli resilienza. Quella vicinanza, che citando Wislawa Szymborska, mi possa far dire “ascolta come mi batte forte il tuo cuore”. Una mano tesa che ancora mi rialzi».
Per concludere, raccontaci tre piccole cose che ti hanno sorpreso… «La prima è la normalizzazione, cioè capire che probabilmente l’essere umano è talmente forte da sapersi adattare ad ogni condizione di vita. Credo sia meschino sapere che “alcuni” esseri umani siano costretti a settarsi in questa condizione estrema, e voltare loro le spalle dentro alle nostre comodità e alla nostra routine.
La seconda cosa è la necessità di un cellulare. La retorica dello smartphone da 800€ in mano ai profughi deve finire: quella scatola di chip, led, e plastica è l’unico ponte rimasto in piedi per queste persone con la loro storia, con città che non esistono neanche più sulle mappe. Quel cellulare su cui sono salvate le foto, le storie, gli amici, il passato meritano di averlo tra le mani. A nessuno dovrebbe essere negata la memoria.
Una terza cosa non ce l’ho, al momento. E spero di non averla mai. Spero che mi restino sempre aperte delle finestre di stupore».