Thomas Vernet è un giovane professore di Storia dell’Africa all’università della Sorbona di Parigi. Ospite di Beatrice Nicolini, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa, ha spiegato agli studenti dell’università Cattolica i risultati delle sue ricerche sulle città-stato Swahili in epoca moderna, tra il 1500 e il 1750.
Nell’immaginario collettivo, la cultura swahili è un mistero. La ragione di questa mancanza di conoscenza risiede nella particolare natura delle genti di questa etnia, arrivate sulle coste orientali dell’Africa dal Medio Oriente (Persia), dall’antica Arabia e dall’estremo Oriente (India e Cina) intorno al primo millennio. L’Oceano Indiano, infatti, era il passaggio privilegiato per gli scambi commerciali tra nativi africani e i popoli islamici. Alcuni tra questi decidevano di trasferirsi nelle ancora incontaminate regioni della costa, l’attuale Kenya, il Mozambico, la Tanzania, oppure negli arcipelaghi antistanti. L’arcipelago di Lamu e la città di Pate sarebbero diventati, ad esempio, i centri più importanti della cultura Swahili.
Gli studi riguardanti questo mondo sono piuttosto controversi. Di fronte a una folta platea di aspiranti storici e curiosi, Vernet ha spiegato: «La documentazione portoghese relativa al periodo della loro dominazione in Africa e Asia è stata a lungo ignorata dagli storici, ma è affascinante perché ci tramanda una visione della cultura swahili differente da quella a cui siamo abituati». Le città-stato swahili sono state per molto tempo rappresentate come entità chiuse, piccoli microstati simili alle città della Grecia antica, sempre in contrasto l’una con l’altra e gelose della propria identità. Soprattutto rispetto ai nativi africani, non “islamici”, quindi relegati fuori le mura e considerati alla stregua di barbari, in lingua swahili ushenzi.
«In realtà, le dinamiche sociali e gli scambi con gli aborigeni sono stati molto più vivaci di quello che finora è stato studiato», ha raccontato il professore. «Fluidità e permeabilità sono le parole-chiave per comprendere queste società, simbolicamente chiuse ma socialmente aperte». Ci sono poi una serie di concetti che ricordano il mondo della Roma repubblicana, come quello della uungwana, ossia l’urbanitas delle élite Swahili. Oppure, il concetto di civitas, “cittadinanza”, molto ambita da chi viveva fuori dalle mura delle città e desiderava integrarsi con la più ricca popolazione swahili. La competizione sociale per ottenerla si sviluppava attraverso le alleanze e le clientele, ma per gli stranieri era necessario convertirsi all’islam. «In fondo, i popoli swahili erano costretti a favorire l’integrazione: nel XVI secolo l’islam non era ancora diffuso in Africa e sarebbe stato difficile altrimenti mantenere il controllo delle regioni e il potere in città».
La documentazione portoghese studiata da Vernet attesta inoltre la presenza di rapporti di tipo militare, commerciale e politico tra élite swahili e tribù africane. I contadini swahili che vivevano nei campi attorno alle città-stato erano invece sempre in contatto con le tribù locali e non erano rari i matrimoni misti. Da qui, il “melting pot” ignorato per secoli, che ha invece caratterizzato l’evoluzione sociale e culturale della costa orientale africana. In questo modo, Thomas Vernet è riuscito anche a spiegare la successiva costante penetrazione dell’Islam ortodosso nell’area, altrimenti impossibile in una situazione di impenetrabilità urbana.