Ma l’uomo che con tutto il cuore / celebrerà l’onnipotente / nome di Dio, è il saggio vero. / È stato Lui a darci la ragione, / se è per Lui che vale la legge: / solo chi soffre, sa. / Quando, in fondo al sonno, / il rimorso s’infiamma, / è in esso, inconscio, la coscienza: / così si attua la violenza d’amore / degli dei al tribunale dei cieli.
Così leggiamo nel parodo dell’Agamennone di Eschilo, la tragedia che apre la trilogia dell’Orestea, al centro dell’analisi del seminario “Giustizia e letteratura” organizzato dal Centro Studi “Federico Stella” che ha ospitato, il 19 aprile, Annamaria Cascetta, docente di Discipline dello Spettacolo e Francesco D’Alessandro, docente di Diritto penale commerciale dell’Università Cattolica.
Limite, trasgressione e responsabilità sono stati i temi dell’incontro, introdotto dal preside della facoltà di Giurisprudenza e direttore del Centro Stella Gabrio Forti che ha parlato di «teatro quale luogo dello sdoppiamento dell’io», in cui vengono rappresentate le molte dimensioni del sé a beneficio di una catarsi che è ancora attualissima, come è particolarmente evidente nel film Cesare deve morire dei fratelli Taviani: «gli attori, veri detenuti, si immedesimano nella tragedia shakespeariana e le parole pronunciate da Bruto sono perfettamente concordi ai sentimenti e alla realtà vissuta dal protagonista, che tolta la maschera teatrale viene riaccompagnato in carcere». Concorde il giudizio della prof.ssa Cascetta: «Il teatro era ed è una palestra pubblica, in particolare nel mondo antico svolgeva una funzione stabilizzatrice e di guida verso una nuova fase storica».
Nell’Orestea molte sono le colpe dei personaggi: Agamennone sacrifica la figlia Ifigenia, Clitemnestra uccide il marito, Menelao distrugge un’intera città che lo ha accolto come ospite, Oreste uccide la madre.
La catena della colpa ha come corrispettivo la catena della vendetta, intesa come giustizia nell’orizzonte dell’interpretazione arcaica, addirittura è considerata un’azione “pia”, in quanto prescritta dagli dei ed infatti sono gli dei ad essere motore e guida di queste catene. Il dio è garante della giustizia per Eschilo, anche se il Coro apre verso una nuova mentalità, ovvero «giudicare è difficile». In generale comunque, nell’analisi della Cascetta, l’eccesso viola i limiti di ciò che è giusto e l’eroe impara soffrendo. Allora la domanda è: che responsabilità ha l’uomo se è il dio che lo acceca? È pur sempre il personaggio che trasgredisce anche se non ha responsabilità piena, ma limitata in quanto il dio è corresponsabile delle sue azioni. Nelle Eumenidi, la terza parte dell’Orestea, viene narrata la persecuzione delle Erinni (le Eumenidi appunto) nei confronti di Oreste, che culmina nella celebrazione di un processo presso il tribunale dell’Areopago. In questo processo l’accusa è impersonata dalle Erinni stesse, Apollo è il difensore e Atena presiede la giuria. Il tribunale di giustizia è un organo che comprende anche una giuria di cittadini. Apollo si assume la sua responsabilità: «Fui io che ti indussi a uccidere tua madre» e da qui nasce un conflitto tra le divinità che ruota attorno alle colpe e al loro grado di valutazione: è da considerarsi più grave il matricidio o il patricidio? Il processo termina con l’assoluzione di Oreste, grazie al voto di Atena.
Siamo dunque lontani dal concetto di giustizia moderno, tuttavia come spiegato da D’Alessandro: «Oreste sceglie di uccidere la madre e di vendicare così il padre, ma prima di compiere il gesto dice “Scelgo e poi muoio” perché, nonostante l’assoluzione, Oreste non sarà mai libero da sé, dalla sua colpa terribile». Secondo il diritto penale moderno il delitto di Oreste sarebbe un omicidio aggravato, punibile con la massima pena: «Oreste ha senza dubbio scelto di compiere una determinata azione dunque l’evento è stato preveduto (art. 43 sul dolo). Ma la sensibilità moderna fa un salto in avanti, ovvero è da considerare il peculiare vissuto psicologico causato dalla minaccia di Apollo (uccidi tuo padre o invierò una lebbra mortale su tutti), che rende la sua colpevolezza meno evidente». Entra quindi in gioco l’art. 54 sullo stato di necessità: «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo». È questo dunque il senso dell’assoluzione di Oreste? In realtà il libero arbitrio nella tragedia antica non esiste. La condotta di Oreste è antigiuridica e deve essere punita (art. 27 recita «La responsabilità penale è personale»). Allora l’assoluzione di Oreste, ottenuta comunque solo grazie al voto di Atena (il giudizio della giuria è 6 contro 6) è un incidente di esecuzione. Aggiunge D’Alessandro: «Oreste sconta comunque la sua colpa: è perseguitato dalle Erinni e l’assoluzione non cancella la sua responsabilità così come il suo senso di colpa».
Nell’ambito della riscrittura moderna della tragedia antica la prof.ssa Cascetta ha accennato all’autore americano Eugene Gladstone O’Neill, autore di Il lutto si addice ad Elettra (1931) in cui la responsabilità questa volta è personale e non viene punita dalla comunità, che non conosce la colpa. In Bertolt Brecht, autore dell’Antigone di Sofocle, l’idea del destino cambia ancora una volta e il limite dell’uomo si lega alle sue condizioni di miseria e all’oppressione esercitata dagli uomini su altri uomini. Il prologo, ambientato nella Berlino dell’aprile 1945, ha per protagonsite le due sorelle Antigone e Ismene, le quali trovano il fratello, disertore, impiccato dalle SS. Antigone tira fuori il coltello per liberare il fratello che «Poteva non essere ancora morto». Non il culto del defunto spinge l’azione dell’Antigone berlinese, ma la possibilità di salvarlo ancora, a costo della propria stessa vita. Antigone subirà il giudizio di Creonte, ma esclamando: «Non parlate del destino. Parlate di chi mi uccide innocente».