La lotta alla criminalità organizzata non può essere condotta solo sul piano repressivo. Denunce, indagini e arresti sono sì fondamentali per minare la struttura organizzativa della mafia, ma non sufficienti per sconfiggerla definitivamente. Per evitare che la piramide gerarchica del sistema abbia una base sempre più solida e un vertice sempre più pungente bisogna agire anche su altri fronti. Ne è convinto il pm Raffaele Cantone (foto a lato) che lo scorso 3 dicembre ha incontrato gli studenti dell’Università Cattolica di Brescia su invito del Centro Studi per l’Educazione alla Legalità, diretto dal professor Luciano Caimi, in collaborazione con la libreria della sede.
«Per estirpare il male che affligge il nostro paese, c’è bisogno di una cura che vada alla radice del problema. L’Italia è affetta da un cancro mortale chiamato mafia che cerca di colpire la parte più debole della popolazione, che si sostituisce allo Stato laddove questo sembra non essere presente. Un male che coniuga una violenza pesantissima con una grandissima capacità di fare impresa», ha precisato il pubblico ministero guardato a vista dalla sua scorta che lo segue da quasi dieci anni dopo le minacce di morte ricevute. Il professor Caimi ha aperto l’incontro spiegando lo scopo della conferenza, organizzata per ragionare sui fenomeni, per cercare di capire e, se possibile, individuare qualche linea prospettica. Dopo aver presentato il libro del pm, Solo per giustizia, il professore ha lasciato la parola al magistrato che ha iniziato l’incontro parlando proprio di ciò che racconta nel libro: la sua vita e il suo lavoro. Cantone arriva quasi casualmente alla magistratura. «Il mio sogno era quello di fare il penalista ma presto mi resi conto che quel sogno era diverso dalla realtà poiché l’avvocato è spesso costretto a sostenere tesi nelle quali non crede e io mi ritrovavo a fare il tifo per il pubblico ministero». Da qui la decisione di entrare in magistratura e di vedere “al di là delle cose”. Ed è così che nel 1999 Cantone entra a far parte della Dda, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, iniziando così la difficile e impegnativa lotta contro la camorra.
Per più di tre ore, nell’aula polivalente della Cattolica, il pm si racconta con parole semplici, coinvolgenti e sincere che fanno trasparire la passione per il suo lavoro, per ciò che fa tutti i giorni, “solo per giustizia” come recita il titolo del suo libro. Numerosi gli interventi del pubblico in sala, per cercare di capire i meccanismi della camorra. Caimi chiede qual è il rapporto tra la gente e la mafia. «È la gestione delle più importanti attività economiche – risponde Cantone – a produrre consenso, che poi viene “gestito” al momento del voto. Purtroppo la mafia al Sud occupa gli spazi che lo Stato lascia liberi, ed è l’alternativa allo Stato».
Il pm ribadisce l’importanza di lottare contro la mafia non solo sul piano repressivo, ma eliminando le condizioni di partenza. «C’è bisogno di una battaglia culturale: non c’è, infatti, differenza tra illegalità e mafia. È, inoltre, necessario spezzare il legame tra imprese e istituzioni». Sono commoventi le sue parole quando ricorda che «mentre c’è gente che parla e chiacchiera, c’è chi si sacrifica nel quotidiano» ed è stato proprio il suo lavoro a fargli conoscere gente che crede fermamente nella lotta alla mafia, che fa bene il proprio lavoro. A loro è dedicato il libro. «Cosa si può fare per sconfiggere la mafia?», chiede un ragazzo della sala. «Fare il proprio dovere nella quotidianità. Questo sarebbe l’antidoto al consenso mafioso. E scommetto che alla fine ce la faremo». Vengono in mente le parole di Albert Camus: “Cos’è un ribelle? Un uomo che dice no”. Ecco, contro la mafia ci vorrebbero tanti ribelli così.