di Giuseppe Langella *

Con Benedetto Croce, Aldo Palazzeschi, Alfredo Panzini, Giuseppe De Robertis, Cesare De Lollis e qualche altro, Pirandello fu tra le poche voci “fuori di chiave” nel coro scalmanato degli interventisti, pronunciandosi in favore della neutralità italiana. Profeta di sventure, non si peritò di pronunciare, in una bellissima e struggente novella del 1915, Berecche e la guerra, invero assai più nominata che letta, una sentenza inappellabile di condanna nei confronti dell’ignobile mattanza avviata l’estate dell’anno prima: «Questa non è una grande guerra: sarà un macello grande; una grande guerra non è perché nessuna grande idealità la muove e la sostiene».

In realtà, il variegato fronte della cultura che promosse una martellante campagna propagandistica in favore dell’intervento fece appello anche ad argomenti di tenore patriottico, a cominciare dalla liberazione delle terre irredente, ancora soggette all’impero asburgico. Si affermò che l’entrata in guerra dell’Italia avrebbe portato a compimento il processo risorgimentale e riscattato l’onore della nazione, uscito alquanto compromesso dall’esito militare della terza guerra d’indipendenza e dalla pessima gestione della questione romana; si evocò addirittura uno scontro di civiltà, tra l’umanesimo latino e la barbarie germanica.

Ma queste motivazioni, oltre ad essere, a seconda dei casi, logore, pretestuose o facilmente oppugnabili, furono soverchiate da altre ancora più irrazionali, riassunte nello slogan di Marinetti: «Glorifichiamo la guerra, sola igiene del mondo». Espressioni di questa risma avevano ben poco a che spartire, in effetti, con le “idealità” invocate da Pirandello. Gli zelatori più invasati della causa interventista, in piena ubriacatura dionisiaca, pretesero di gettarsi nella mischia come andando incontro a una festa della giovinezza, a una mirabolante avventura. E se ancora si poté indossare l’uniforme avendo in testa le parole d’ordine più sacre risuonate nei mesi della preparazione dell’intervento, a contatto con la realtà brutale ed elettrizzante della guerra ogni nobile scopo della vigilia sembrò liquefarsi come neve al sole.

La guerra vera, quella combattuta, spense in breve ogni entusiasmo, anche in quei letterati che erano accorsi al fronte arruolandosi volontari. Lungi dall’essere un’allegra avventura, intonata sulle ottave di un poema cavalleresco, la guerra mostrò il volto sfibrante e luttuoso di un Moloch insaziabilmente avido di vittime. Al tempo squillante dei proclami successe, così, quello mesto e doloroso della pazienza e della conta delle perdite. Le commemorazioni divennero così frequenti, nelle riviste letterarie, che ad esempio nella «Diana» di Gherardo Marone l’apposita rubrica A capo scoperto si guadagnò, tristemente, un posto fisso, e il necrologio – si pensi soltanto al Notturno di D’Annunzio – tornò in auge come uno dei generi letterari più praticati del momento. Conosciuta la tremenda realtà della guerra, per esperienza diretta o attraverso i bollettini dei Comandi militari, l’ebbrezza della vigilia lasciò il posto all’orrore. Lette in sequenza, le testimonianze letterariamente più valide che si susseguirono sulla «Diana», e cioè Congedo di Umberto Saba (luglio 1915), Dichiarazione di Piero Jahier (gennaio 1916) e Senza fanfara di Clemente Rebora (marzo 1917), descrivono una traiettoria addirittura esemplare, mostrando il progressivo venir meno dei moventi che avevano riempito l’impazienza dell’attesa. L’ultimo titolo, in particolare, equivale a una sorta di palinodia: imposta dalla cultura interventista a suon di “diana”, la guerra finì per essere sopportata in silenzio, per pura obbedienza a un indeterminatissimo «qualcuno o qualcosa» che l’aveva voluta e che spingeva l’«aratro» sulla «terra grassa bagnata» per sollevarla «ferita» e «rovesciarla»; con l’unica certezza di essere carne da «cannone»: «Bróntola, bróntola […]: il rancio per noi, noialtri per te».

Da questa condizione precaria, in limine mortis, derivano tutte le peculiarità strutturali della letteratura di guerra: la forma diaristica, il carattere episodico e frammentario, la cifra epigrammatica e sapienziale, una disposizione testamentaria a scrivere con lo stesso spirito di chi dettasse le sue ultime volontà e l’attaccamento alla vita, assaporata in ogni suo aspetto e momento con l’intensità del condannato che sa di doversene presto staccare. Fatte salve queste coordinate abbastanza comuni, c’è lo scrittore che racconta in chiave epica, come Ardengo Soffici in Kobilek (1918), e quello che ricorre invece, per sdrammatizzare, alla chiave comica, come Antonio Baldini in Nostro Purgatorio (1918); l’ufficiale partito volontario Carlo Emilio Gadda, uomo d’ordine intriso di furori risorgimentali e affetto da «mania» militaresca, che nel Giornale di guerra e di prigionia, tenuto tra il 1915 e il 1919, sfoga la sua incontenibile insofferenza contro l’improvvisazione, la dappocaggine, l’inerzia e la vigliaccheria dei «cani assassini che avevano consegnato al nemico tanta parte della patria», e un testimone, per converso, come Emilio Lussu, il quale dà conto, in Un anno sull’altipiano (1938), del malessere sociale che serpeggiava nelle truppe, fino al clamoroso ammutinamento della brigata Sassari.

In ogni caso, salvo rare eccezioni, in questa letteratura non resta in piedi quasi nulla delle dichiarazioni della vigilia, spazzate via da un’esperienza che fece toccare con mano, al di là dell’immaginabile, il volto disumano della guerra. Fu subito chiaro che tra la guerra ideologica
della propaganda e la guerra combattuta dal popolo era scavato un abisso, allagato da un fiume di sangue. Se il conflitto avrebbe segnato una svolta nella letteratura non meno che nella storia contemporanea, è proprio perché nel suo enorme sperpero di vite avrebbe fatto naufragio la stagione eversiva delle avanguardie e di una cultura militante tumultuosamente malata di protagonismo. La guerra fece giustizia di tutte le illusioni e di tutti gli inganni della macchina interventista. Gli idoli di cartapesta non ressero all’urto. Si salvarono solo i valori umani, esaltati anzi da quella scuola tragica e selettiva di fortezza, di disciplina, di pazienza e di pietà.

* Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo di Giuseppe Langella sull’ultimo numero del bimestrale di cultura dell’Università Cattolica “Vita e Pensiero [scarica qui la versione integrale]. Langella insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e dirige il Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”. Nel 2000 ha promosso un convegno (Scrittori in divisa. Memoria epica e valori umani) sulla letteratura alpina di guerra. È appena uscita in libreria una sua silloge poetica, Reliquiario della grande tribolazione, che ripercorre l’esperienza dei soldati al fronte sulla falsariga della Passione.