Bandiera del BrasileLa prima e unica volta risale a 54 anni fa e ancora non se ne sono fatti una ragione. Doveva essere un pura formalità: dopo una galoppata trionfale di vittorie e gol a grappoli, nell’ultima partita al Brasile sarebbe bastato pareggiare con l’Uruguay – descritto dalle cronache di allora come tutt’altro che irresistibile – per dare il via alla festa nazionale già organizzata sin nei dettagli per celebrare il previsto trionfo calcistico. Inevitabile che un campionato del mondo organizzato nel Paese del futebol bailado finisse con intere giornate di samba, gioia, bellezza e balli in piazza. Ché poi la festa era già cominciata, tanto che ancor prima della finale era stata organizzata una sorta di carnevale di Rio fuori stagione. Ma qualcosa andò storto. All’Uruguay riuscì l’inatteso scherzetto e la prevista sarabanda si trasformò in letteratura. Dopo, però.

Perché, prima che tanti grandi e ispirati scrittori si cimentassero nella narrazione degli eventi che ridussero un intero popolo in ginocchio, si dovette tenere la contabilità di un’autentica tragedia nazionale: 56 morti per arresto cardiaco (una decina allo stadio), 34 suicidi (due dentro il Maracanã al fischio finale), tre giorni di lutto nazionale, persino il successivo tentato suicidio di un giocatore protagonista della finale caduto in depressione. Senza contare gli effetti collaterali, per fortuna molto meno drammatici: come la mancata esecuzione al momento della premiazione finale dell’inno dell’Uruguay perché la banda designata se n’era andata sgomenta; o la decisione della nazionale brasiliana di non disputare nessuna partita nei due anni successivi al tracollo.

E pensare che l’organizzazione di quel campionato del mondo era per il Brasile non solo un’occasione per rendere omaggio allo sport nettamente più popolare del Paese e per porre riparo alle grandi delusioni sportive patite nelle edizioni mondiali degli anni Trenta, ma anche un modo per dimostrare il suo buono stato di salute socio-economico a un mondo e soprattutto a un’Europa piagati dalle conseguenze della Seconda guerra mondiale. Un po’ come quest’anno, con l’Occidente reduce non da una guerra, ma da una crisi economico-finanziaria spaventosa.

Al momento del lancio della candidatura, invece, l’economia brasiliana era in una fase di espansione galoppante. Il Prodotto interno lordo cresceva nel primo decennio del XXI secolo a ritmi superiori al 4% annuo. Poi c’è stata una brusca frenata (+0,9% nel 2012) e una ripresina. Ora le previsioni di crescita si attestano per il prossimo biennio fra il 2 e il 2,6% (che invidia…). È stato calcolato che fino al 2019 i Mondiali di calcio e le successive Olimpiadi, assegnate a Rio de Janeiro nel 2016, avranno un effetto positivo sul Pil dello 0,4% medio annuo. Vedremo.

In ogni caso, questi due grandi eventi hanno messo in moto una massa di investimenti diretti (stadi, viabilità e infrastrutture) per un totale di circa 33 miliardi di euro, e indiretti (turismo e telecomunicazioni) per altri 50-60 miliardi. Per l’85% si tratta di denaro pubblico e questo, insieme all’esplodere del tema della sicurezza nei cantieri d i lavoro, ha provocato un’ondata di proteste popolari non solo pacifiche: curioso che fra i leader della rivolta ci sia un ex calciatore assai famoso, Romario, la stella del Brasile che nel 1994 si laureò campione del mondo negli Usa, battendo l’Italia in finale ai rigori. Replica delle autorità governative: solo grazie all’afflusso degli appassionati di calcio nelle città che ospiteranno il Mondiale, verranno ripagate tutte le spese dirette al benessere dei turisti e anzi è previsto un saldo attivo immediato di circa un miliardo di euro.

Su costi e benefici dell’organizzazione di un campionato di calcio il dibattito è irrisolto. Certo, dipende molto da chi e come organizza. L’edizione italiana del 1990 fu un disastro, ne paghiamo ancora oggi le conseguenze, gli stadi furono peggiorati, anziché migliorati, dai lavori di ristrutturazione, quelli costruiti ex novo sono oggi pressoché abbandonati o sottoutilizzati, se non già rasi al suolo (il Delle Alpi di Torino).

L’edizione del 2006 in Germania invece consentì al calcio tedesco l’avvio di un percorso virtuoso che oggi l’ha portato a essere il più sano, appassionato e partecipato d’Europa. Gli investimenti pubblici e privati negli stadi e l’impegno, anche economicamente consistente, per il rilancio dei settori giovanili hanno portato il calcio tedesco, in crisi alla fine del XX secolo, a essere il più “sostenibile” d’Europa: bilanci in ordine, solidità patrimoniale, stadi strapieni e squadre competitive, come dimostrano gli straordinari successi del Bayern Monaco.

Sicuramente la Germania è una delle nazionali favorite del Mondiale brasiliano. Il sorteggio del tabellone del torneo ha fatto in modo che i tedeschi prima delle semifinali non possano incrociare l’Italia e questo per loro è un grande vantaggio. Sì, perché, per uno dei tanti misteri imperscrutabili del calcio, la Germania ogni volta che incontra l’Italia perde. Anche quando è nettamente più forte. È inspiegabile, ma è così. L’Italia per arrivare in semifinale dovrebbe compiere un mezzo miracolo. Non si presenta nelle condizioni disastrose in cui era all’epoca dell’unico precedente brasiliano, ma quasi.

Allora, nel 1950, il calcio italiano viveva una gravissima crisi, aperta dalla tragedia di Superga, il terribile incidente aereo in cui persero la vita i giocatori del Grande Torino, la squadra che aveva spadroneggiato nel dopoguerra e che in pratica costituiva la Nazionale. La risposta dei vertici del calcio a quella sciagura fu spalancare le porte all’arrivo dei calciatori stranieri. Anche per questo, per la mancanza di ricambi all’altezza, la spedizione brasiliana si risolse in un disastro sportivo: fuori al primo turno. Con alcuni risvolti tragicomici, tipo la trasferta effettuata in nave per il rifiuto di alcuni calciatori di salire su un aereo, dopo quanto capitato ai loro colleghi del Torino.

Oggi non stiamo molto meglio. A livello di club, i risultati sportivi sono assolutamente deficitari rispetto a quelli del periodo d’oro 1990-2005, di pari passo con gli sconfortanti risultati economico-finanziari. Esempio significativo: poco più di una decina di anni fa, la Roma vantava ricavi superiori al Barcellona; oggi fattura quasi cinque volte di meno. E il problema degli stranieri si ripresenta: il 52,48% dei calciatori di Serie A non sono italiani. Va peggio solo all’Inghilterra (61,03% di stranieri). Mentre in Germania e Spagna questa percentuale scende rispettivamente al 44,26% e al 38,44%.

Assolutamente anacronistico pensare di chiudere le frontiere, il calcio italiano si trova però senza campioni di ricambio perché è quello che cura meno i vivai. Età media dei giocatori nei principali campionati europei: 25,7 anni in Spagna; 26,4 in Francia; 27 in Germania e Inghilterra; 27,4 in Italia. E soltanto il 7,1% dei giocatori di Serie A proviene dalle squadre giovanili dei club, contro il 12,2% in Premier League, il 16,9% in Bundesliga, il 18,8% nella Ligue 1 francese e il 22,7% nella Liga spagnola.

Per tutto ciò, nonostante la grande fiducia di cui gode Prandelli e la tradizionale capacità delle squadre italiane di dare il meglio nelle condizioni di partenza più complicate, resta difficile immaginare l’Italia fra le grandi favorite della manifestazione. Il ranking Fifa dice che oggi la squadra più forte è la Spagna, campione del mondo uscente e campione d’Europa, davanti a Germania e Argentina. Tutti danno per favorito il Brasile, che però in questa classifica, basata sui risultati più recenti, è soltanto nono. Naturalmente sarà protagonista, ma evitare che si ripeta la grande delusione del 1950 non sarà facile. Per chi si vuole divertire, senza coinvolgimento di tifo e senza pensare che potranno vincere il Mondiale, il consiglio è guardare anche le partite di Belgio, Colombia e Portogallo. Ma, in quest’ultimo caso, soltanto perché c’è Cristiano Ronaldo.

* Giornalista multimediale, è stato responsabile dei servizi sportivi del «Corriere della Sera», vicedirettore de «Il Mattino» di Napoli, condirettore de «l’Unità», direttore di «Rigore», vicedirettore di «Tuttosport», commentatore e autore radiotelevisivo, ideatore di siti e web tv. Ha scritto La ripartenza e Il calcio ai tempi dello spread ed è stato direttore della comunicazione della Fiorentina. Attualmente è opinionista per «Gazzetta dello Sport» e Sky Tv.