Cosa dobbiamo aspettarci dal Medio Oriente? Qualcosa può veramente cambiare? Nessuno ha la sfera magica per dare una risposta a una domanda che si trascina da sessant’anni. Una speranza però c’è.

Una prospettiva iraniana. L’ha illustrata Mahmood Sariolghalam, docente di Relazioni Internazionali presso la National University of Iran, la Beheshti University. In un incontro nell’aula Lazzati di largo Gemelli promosso dal dipartimento di Scienze politiche lo scorso 3 maggio, Sariolghalam ha dimostrato come l’allargarsi del solco tra Stato e società crei per il Medio Oriente un futuro multietnico. Una società che non corrisponde allo stereotipo occidentale, ma piuttosto aperta ai cambiamenti e al progresso che internet e le nuove tecnologie producono. La sfida per il politologo iraniano è quella di rendere la società, incarnata dalle persone, più potente e più grande dello Stato stesso, rappresentato dalle istituzioni. L’«Iranian Perspective» del professore, che ha dato il titolo all’incontro, denuncia anche una dicotomia ancora troppo accentuata tra “liberalizzazione” e “democratizzazione” negli stati arabi: dove il primo termini indica l’apertura che la gente vorrebbe trovare nella società, anche multietnica; e democratizzazione è il regolare funzionamento di uno stato di diritto. Un processo molto più difficile, perché richiede il lavoro e il consenso delle istituzioni.

L’esempio turco. Per avere un vero processo di democratizzazione, secondo il professor Sariolghalam è essenziale la totale indipendenza del settore privato. In Iran, al momento, rappresenta meno del 10% del commercio, mentre tutto il resto è regolato dallo Stato, a sua volta controllato dalla religione. L’esempio da seguire sarebbe invece la Turchia. Non soltanto perché lo stato turco rappresenta l’archetipo per eccellenza di uno stato laico di confessione islamica. Ma proprio perché, nel momento in cui questa laicità è sembrata essere minacciata, si è scoperto come invece il sistema fosse ormai sedimentato nel tessuto statale: Sariolghalam si riferisce esattamente al 2003, quando la vittoria alle elezioni presidenziali turche del leader del partito islamico Erdogan è apparsa come un colpo mortale alla distinzione stato/religione. «E invece un importante imprenditore turco – racconta il professore - mi diceva che poche settimane dopo le elezioni ricevette una telefonata dal nuovo governo: “Come possiamo aiutarvi a fare meglio il vostro lavoro?”. Perché un paese è democratico quando lo stato è solo regolatore».

Cosa cambierà l’Iran? È pensabile un cambiamento simile in Iran? Il riformismo di Khatami è fallito, le proteste del giugno 2009 sono terminate nel sangue e nella repressione: davvero la modernità può aiutare l’Iran? «Il riformismo di Khatami era concettualmente sbagliato - risponde Sariolghalam – perché uno stato di matrice religiosa non potrà mai accettare la democrazia. Ne andrebbe della sua stessa sopravvivenza. La democrazia era esattamente antitetica alla logica del sistema iraniano. Solo un cambiamento demografico potrà portare un cambiamento di regime. Alcuni dati sono confortanti: la popolazione mediorientale è molto più giovane. Al momento, il 35% degli europei è nella fascia 30-60 anni; il 35% dei mediorientali è invece nella fascia 20-40. La popolazione dell’area nel 1992 ammontava a 180 milioni di persone; si prevede che nel 2022 toccherà i 360 milioni. E al momento, il 71% degli iraniani è sotto i 27 anni. Solo un sostanzioso cambiamento in questa direzione può cambiare il sistema dello Stato e questo avverrà quando toccherà una larghissima maggioranza della popolazione».