Un anno in più alle donne per optare per la pensione contributiva, una nuova salvaguardia per circa 26mila esodati e part-time per i lavoratori vicini al compimento dell’età pensionabile. Sono alcune delle misure sulle pensioni che entrano nella legge di stabilità deliberata dal Consiglio dei Ministri e i cui dettagli si potranno conoscere solo nei prossimi giorni.

Uno dei nodi da sciogliere, quindi, resta ancora quello dei cosiddetti “pensionati forzati”. Anche perché, quando si parla di pensioni, il primo pensiero va a loro e alla necessità di intervenire il prima possibile per gestire l’emergenza creata dalla riforma Fornero. «Il tema delle pensioni è un tema considerato caldo proprio a partire dal “pasticcio” degli esodati», spiega Paolo Balduzzi (nella foto sotto), ricercatore del dipartimento di Economia e finanza, da tempo impegnato a studiare tematiche di finanza pubblica e disuguaglianza intergenerazionale. «In realtà – continua –,  da almeno venti anni, vale a dire dalla riforma Amato del 1992, di riforme delle pensioni, più o meno incisive, se ne sono succedute parecchie. La riforma Fornero è la più recente, ma la più importante, nel bene e nel male, è stata certamente la riforma Dini del 1995. Con quella riforma l’Italia ha introdotto il metodo di calcolo contributivo».

Perché a proposito di esodati parla di “pasticcio”? «Sia chiaro: non sono di quelli che punta il dito contro la Fornero. Credo che abbia avuto il coraggio di fare ciò che i politici, per proprio tornaconto elettorale, si sono rifiutati di fare per oltre quindici anni. Non si può però negare che l’emersione del fenomeno degli esodati avrebbe dovuto essere gestito meglio».

E come? «Ancora oggi non si è riusciti nemmeno a quantificare il numero di lavoratori coinvolti. E credo si tratti di un problema tecnico-burocratico interno all’Inps e non di una responsabilità specifica del ministro di turno. Quindi, fatta giustizia a chi aveva maturato davvero un diritto prima dell’entrata in vigore della riforma Fornero, ci si può concentrare sul resto».

Il professor Paolo BalduzziPer esempio? «Ci sono ancora parecchie cose da fare. Mi limito alle principali. Innanzitutto, far capire agli italiani come funziona il metodo di calcolo contributivo. Non è affatto scontato e, soprattutto, segue una logica diversa da quella cui siamo sempre stati abituati. Sono passati vent’anni dalla riforma Dini e ancora non è chiaro a molti lavoratori la logica del suo funzionamento».

Per quale motivo? «Il grosso problema della riforma del ’95 è che ha previsto una fase di attuazione troppo lunga. Basti pensare che nel 2011 oltre il 90% delle pensioni erogate in Italia era calcolata ancora con metodo retributivo. La riforma Fornero è dunque intervenuta per rendere la fase di transizione più veloce».

Si è molto parlato di flessibilità, di cui non si fa cenno nella manovra appena presentata. «Il metodo di calcolo contributivo per sua natura predilige la flessibilità in uscita. Tutta l’enfasi che ancora si pone sull’età minima per andare in pensione è frutto di una fase di transizione troppo lenta. Stabilire età minime elevate per ritirarsi dal lavoro ha senso quando si ha a che fare con pensioni “retributive”, che non tengono conto dell’aspettativa di vita al momento del pensionamento».

Quindi, introdurre forme graduali di flessibilità è non solo opportuno ma anche naturale? «Certo. Nel breve periodo e in questa situazione che vedrà ancora per molti anni la prevalenza di pensioni “retributive”, la flessibilità comporterà un aumento dei costi. Inoltre, visto che si insiste molto sul fatto che la flessibilità dovrebbe favorire le donne, vorrei essere esplicito: la riforma Dini favorisce già le donne».

Ci può spiegare in che modo? Perché considera l’aspettativa di vita media della popolazione per calcolare le pensioni e non l’aspettativa di vita per genere. Poiché le donne si attendono di vivere di più, questa scelta permette loro di ottenere pensioni più alte di quelle cui avrebbero avuto diritto. Che il peso della gestione della famiglia ricada principalmente sulle donne è vero, ma sono gli strumenti di welfare del mercato del lavoro a dover affrontare il problema, mica il sistema pensionistico. In sintesi, il tema della flessibilità dovrà essere affrontato ma non credo che debbano essere previste normative diverse per le donne».

Chi va in pensione prima non rischia di essere penalizzato? «Dal punto di vista della logica contributiva, è ovvio che andare in pensione prima comporti il diritto a una pensione inferiore. Questo lo capisce anche chi non ha particolari competenze matematiche o economiche. Il problema vero è che le generazioni più anziane, lavorativamente parlando, sono cresciute guardando a un sistema pensionistico diverso. Ma le regole sono cambiate, e non capisco perché non debbano cambiare per tutti ma solo per i più giovani».

Non crede che ci sia poca chiarezza su questo fronte? «C’è infatti un grosso problema comunicativo: se si parla di “penalizzazione” al momento del pensionamento anticipato, è ovvio che si manda un messaggio negativo. Bisognerebbe parlare, in maniera più neutrale, di adeguamento contributivo della propria pensione. Che non è una mera opera di cosmesi del messaggio: è esattamente quello che si fa all’interno di un sistema pensionistico che usa il metodo contributivo».

In quest’ottica, come valuta l’iniziativa del nuovo presidente Inps di cominciare a informare i lavoratori sul valore futuro della propria pensione? «Ottima. Ma si possono immaginare molte altre iniziative di educazione finanziaria sul tema. È opportuno che il Governo trovi al più presto le risorse per applicare la logica contributiva in toto. Sarebbe opportuno, poi, trovare forme alternative o aggiuntive di contribuzione per i periodi di disoccupazione o per coloro che vogliono avere una pensione più elevata, senza necessariamente passare dall’iscrizione a fondi pensione privati per loro natura più costosi. Infine, credo la si debba finire di considerare le pensioni un ammortizzatore sociale, sia per quanto riguarda i problemi occupazionali (si vedano i pre-pensionamenti), sia per ciò che concerne le dinamiche famigliari».

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DAL RETRIBUTIVO 
AL CONTRIBUTIVO

«Le pensioni non sono più calcolate come percentuale di una media delle retribuzioni guadagnate (metodo retributivo), bensì eguagliano il totale dei contributi versati, opportunamente corretto in base all’aspettativa di vita al momento del pensionamento - spiega Paolo Balduzzi, ricercatore del dipartimento di Economia e finanza dell’Ateneo -. Per capire meglio, se due individui nel corso della propria vita lavorativa hanno contribuito per “1000” ma uno dei due va in pensione a 70 anni e l’altro a 65, il primo avrà diritto a una pensione più elevata. Ritengo questo meccanismo più equo, perché collega l’ammontare della pensione a quanto si è contribuito al sistema pensionistico durante i propri anni lavorativi. In generale, tuttavia, in questo periodo storico il metodo di calcolo contributivo introdotto dalla Dini fornisce pensioni mediamente più basse (a parità di altre condizioni) del metodo precedente».