Il “professore poeta” è deceduto a Milano a quasi 88 anni nella tarda serata del 2 agosto. Le pagine dei giornali a lui dedicate lo ricordano, oltre che come il poeta della Mediolanum, simbolo della sua ricerca del “mezzo”, anche come il francesista che ha insegnato per molti anni in Cattolica. Dopo la laurea in Lingua e letteratura francese nel 1947 nell’Ateneo allora guidato da padre Gemelli, Erba ha sempre collaborato con l’Università (con una lunga pausa presa per insegnare negli Stati Uniti), fino a quando è diventato ordinario di Letteratura francese in Cattolica nel decennio 1987-1997. Nel 2003 rilasciò a Presenza questa intervista a pochi mesi dal suo ottantesimo compleanno. La pubblichiamo come ricordo del poeta e del professore.


Luciano Erba in una foto di qualche anno faLo sguardo sornione come quello dei gatti di cui si circonda tra le mura di casa e tra i versi delle sue poesie, l'an­datura pacata e le espressioni misura­te di chi ha conquistato la saggezza negli anni. Dal salotto dove ha inizio la nostra conversa­zione s'intravede lo studio di Luciano Erba, limitato da scaffali traboccanti di titoli, regno di quel disordine piacevole e amabile tipico dello studioso che non può respirare se non immerso nel profumo della carta, vivo tra le pagine stampate dei libri e le pagine bianche da scrivere. Luciano Erba è noto come poeta milanese ma per una vita ha fatto il professore. La sua presenza all'Università Cattolica, dopo la lau­rea in italiano nel 1947, comincia nel 1953 come assistente, quindi come incaricato di letteratura francese e prosegue fino al 1963 quando si reca negli Stati Uniti. In seguito tor­na come ordinario nell'ateneo di Padre Gemelli e qui svolge tutta la carriera accade­mica fino al 1997.

LineaK, del 1951, e Nella terra di mezzo, del 2000, segnano il cinquantennio della sua pro­duzione poetica che ha visto molte opere oggi note, tra le altre Il male minore, Il prato più verde, Il nastro di Moebius, Il tranviere metafi­sico, L'ippopotamo, L'ipotesi circense per finire col recente Oscar Mondadori Poesie 1951­-2001. Cos'è per Luciano Erba la poesia? Mi sento un ricercatore. Trovo e non trovo, a volte va bene, a volte va male. Come quando si va per funghi. Ma non è finita. Si trova, o perlomeno si crede di aver trovato, quando l'oggetto incontra la parola, o inversamente quando la parola incontra l'oggetto. E neppu­re basta. Il cercatore e trovatore di verità sa che in poesia la verità non si coglie che per sfuggirci di nuovo. Si potrebbe dire che la poesia consiste in uno sforzo di cattura e in un profilo di dileguamento. Di che cosa? Ma sì, chiamiamola verità.

Quale messaggio vuole comunicare attraverso le sue poesie? Questa del messaggio è un tipo di richiesta alla poesia che proviene dalle tante culture social-populiste che si sono avvicendate con diverso nome, ma sempre al servizio del pote­re, negli ultimi secoli. La poesia è altra cosa da uno strumento mediatico; quando vuol esserlo - le sia imposto con le buone o con le cattive - cessa di essere poesia. Perché la poe­sia "passi" non soltanto occorre che l'autore sia poeta ma che anche il lettore lo sia, alme­no virtualmente. Difficilmente la poesia infarcita di retorici ideali o di ideologia tout court, per quanto astuta sia la sua maniera di ottenere l'ascolto (vedi l'agente pubblicitario che finisce sempre per lanciare l'articolo), ottiene un risultato creativo nell'animo di chi la legge: al più lo esorta all'azione, come un qualsiasi inno nazionale. Le mie preferenze vanno agli oggetti semplici, alle piccole cose, alle passioni elementari, la mia estrazione è piccolo borghese, gli anni del ventennio fascista in cui sono cresciuto mi hanno lasciato, non so se per mio spirito di contrad­dizione o che altro, l'impronta di una totale avversione alla retorica. La fortuna ha voluto che attraversando gli spazi insidiosi dell'anti­retorica ho finito per scoprire, forse era desti­no, il valore dell'ironia, un fondamentale strumento di conoscenza, a mio parere.

Che ricordo conserva degli anni in cui ha frequentato l'Università Cattolica? Il migliore dei ricordi, forse perché si tratta­va dei miei anni di piena gioventù. Per la gran parte dei docenti il rigore scientifico dei corsi monografici era fondamentale. Ricordo Ezio Franceschini, di latino medievale, alquanto severo: all'esame dovevamo legge­re e tradurre a prima vista i testi del corso ma anche (alludo ai temutissimi "esami di cultu­ra") i grandi classici come Virgilio, Tacito. Di Mario Apollonio, con cui mi sono laureato con una tesi su Lorenzo Magalotti (autore toscano del Seicento, espressione di una cul­tura a un tempo scientifica e barocca che mi affascinava) non posso dimenticare l'uomo aperto e il professore stimolante. Ero anche interessato, come molti compagni di quegli anni, alle letterature straniere, soprattutto di quei Paesi con cui l'Italia fascista era entrata in guerra: quindi letteratura inglese e fran­cese, filologia slava, insegnata questa da padre Veseli, un domenicano della Moravia. Poi la filosofia, monsignor Francesco Olgiati, che seguiva i miei studi e mi riceveva in Arcivescovado, nel suo studio, circondato dai suoi numerosi gatti e da infiniti libri. Ma il mio vero tutor, si direbbe oggi, era monsi­gnor Mariano Campo, alloggiato in un mo­desto abbaino del collegio S. Carlo, in corso Magenta: siciliano, aveva perfezionato i suoi studi in Germania, ed era considerato il nostro più importante specialista di Kant, soprattutto del Kant precritico. Mi aiutò, oltre che negli studi, nei difficili tempi degli ultimi anni di guerra.

Un ricordo personale di Padre Gemelli? Era molto autoritario, voleva che ci presentassimo agli esami indossando la camicia nera, le ragazze, invece, esami o no, dovevano sempre vestire un grembiule nero, che, devo dire, non stava poi loro tanto male. Ricordo di aver parlato con Padre Gemelli alla fine degli anni '50 in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico a Castel­nuovo Fogliani, l'istituto in provincia di Piacenza dove studiavano le suore e dove ero incaricato di letteratura francese. Mi chiese delle mie ricerche e mi raccomandò di stu­diare, di studiare sempre. Camicia nera a parte, il mio è un ricordo affettuoso, di una guida imperiosa, di un maestro severo. Era­vamo i suoi sudditi, ma anche la sudditanza può essere un gradino, un passaggio diciamo iniziatico.

All'inizio degli anni Quaranta come si collocava l'impegno politico rispetto allo studio e all'università? Certi professori erano "in odore" (non si poteva chiedere di più) di antifascismo e vi erano studenti che non mancavano di fiuto per accorgersene. Un gruppo di noi seguiva le lezioni di storia delle dottrine politiche di Passerin d'Entrèves ma era prematuro par­lare d'impegno politico, se ne parlerà, in ter­mini meno gramsciani e più operativi, dopo il 25 luglio e soprattutto dopo l'8 settembre. Personalmente sono stato renitente al richia­mo alle armi disposto dalla cosiddetta Repub­blica Sociale (sempre questa parola, "socia­le"), sono stato uno "sbandato" dapprima in città, poi in montagna; arrivato l'inverno del '43 sono passato in Svizzera attraverso la Val­tellina, internato in vari campi di sosta e di lavoro, quindi ammesso alle Università di Losanna e di Friburgo, anche qui in un'uni­versità cattolica dove ho avuto la fortuna di essere allievo di Gianfranco Contini.

Lei è stato allievo anche di Giuseppe Lazzati. Più che allievo sono stato suo assistente alla redazione del settimanale dell'Azione Catto­lica: L'Azione Giovanile, di cui Lazzati era direttore. Ricordo che una volta siamo anda­ti a sciare con altri amici in Val Senales in Alto Adige. Alla Messa della domenica la predica era in tedesco ma Lazzati pur conoscendo la lingua ci faceva uscire e rientrava in chiesa solo per assistere al seguito della liturgia.

Torniamo al presente. Una parola su Milano, città che le ha dato i natali che lei ha lasciato per diversi anni e che le ha dato il ben tornato. Milano per me è una sorta di baricentro, il punto di equilibrio: non è una metropoli, ma nemmeno una città di provincia, non è a nord né a sud del mondo, né ad est né ad ovest. Sarà una mia proiezione ma Milano, l'antica Mediolanum, è la terra di mezzo, quella che io vado cercando senza nemmeno accorgermi che è a mia portata di mano. Ho qui le mie radici, ma preferisco non render­mene conto. Mi sono allontanato per anni per insegnare a Parigi e negli Stati Uniti e non ho mai provato nostalgia, come è tipico dei veri milanesi. Milano è nel mezzo e crede di vedere dappertutto, è dappertutto e crede di vedere Milano. E' stata la prima città in Ita­lia ad avere un quartiere cinese (1920).

Come le piacerebbe essere ricordato, come professore o come poeta? La mia schiena si è incurvata sui libri, la ricerca resta alla base di tutto. Ho fatto il pro­fessore per gran parte della mia vita e ho scritto qualche poesia, non so scegliere, vada per la terra di mezzo, mi piacerebbe essere ricordato in entrambi i modi, come un funambolo che cerca di non cadere né da una parte né dall'altra.