Pubblichiamo ampi stralci della relazione che il professor Vincenzo Ferrante ha tenuto nell’ambito del convegno “Verso i cinquant’anni dello Statuto dei Lavoratori” che si è tenuto al Cnel lo scorso 20 febbraio. Un modo per celebrare il mezzo secolo dello Statuto, varato il 20 maggio 1970

di Vincenzo Ferrante *

Provare a comprendere, a cinquant’anni di distanza, che cosa è rimasto e che cosa è caduto dello Statuto dei lavoratori, ma anche che cosa può ancora dare nell’immediato o in futuro.
 
Non sono poche, ovviamente, le modifiche che si sono registrate nel mondo del lavoro negli ultimi cinquant’anni, ma quello che si deve dire è che alcune di queste tendenze sono presenti già in forma germinale nello Statuto, e sono in qualche modo affrontate e regolate. 

Quattro novità che lo Statuto ha intuito e ha saputo anticipare

Nello Statuto ci sono tante norme importanti, che hanno fatto, per così dire, da battistrada, fornendo soluzioni, magari provvisorie, a questioni che negli anni successivi avrebbero conosciuto un grande sviluppo.

Voglio ricordare qui innanzi tutto le norme del titolo V, sul collocamento, che sono state oramai cancellate, ma che fin dal 1970 agganciavano l’idea che la dignità e la libertà dei lavoratori richiedessero servizi all’impiego pubblici, diffusi, efficienti e capaci di garantire mobilità a chi cercasse lavoro o avesse perso l’occupazione o, semplicemente, volesse cambiare attività. 

In secondo luogo, c’è tutta la parte del titolo I diretta a limitare i poteri di controllo del datore. Questa è una parte all’epoca veramente sperimentale, presa a modello in tutto il resto del mondo: penso al divieto di indagini in sede pre-assuntiva, di cui all’art. 8, al divieto di visite mediche di cui all’art. 5, alla disciplina dei controlli a distanza di cui all’art.4, che, sia pur rivisto, rimane un punto centrale nella tutela delle condizioni di lavoro. Sono norme che non hanno nulla del modello americano e che, anzi, qualche collega statunitense ancora ci invidia. 

Un’altra norma che ha avuto un grande seguito è stato l’art. 36, in materia di appalti, che impone alle imprese che ottengono commesse pubbliche una speciale forma di controllo, affinché il vincitore della gara, non abbia ad aggiudicarsi l’appalto risparmiando sui costi del lavoro. Questa è una disposizione, in relazione alla quale la giurisprudenza italiana ed europea (e di conseguenza anche la legislazione), hanno sperimentato soluzioni non sempre coerenti con questa premessa, perché non è mancato chi ha, invece, ritenuto più importante una riduzione dei costi o, forse giustamente, l’apertura del mercato alla concorrenza delle altre imprese europee. Si tratta comunque di una norma anticipatrice degli sviluppi successivi e di grande rilievo: e di tanto si aveva piena consapevolezza già al momento dell’emanazione dello Statuto. 

Un ultimo aspetto riguarda la progressiva omogeneizzazione di disciplina con il settore pubblico: qui l’art. 37 estende lo Statuto dei Lavoratori non solo agli enti pubblici economici ma anche, con una disposizione che diede molto lavoro alla giurisprudenza negli anni ‘70, a tutti i rapporti di impiego pubblico, anticipando una linea di evoluzione successiva, comune anche ad altri paesi europei. 

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Modello statutario della rappresentanza aziendale e crisi della contrattazione collettiva 

Il cuore di tutta la disciplina dettata dallo Statuto, però, è ovviamente costituito dalle norme del titolo III, che disciplinano la presenza del sindacato in azienda. A riguardo, io penso che il modello dello Statuto, fondato sulla selezione degli interlocutori sindacali dell’impresa e mirato alla promozione della presenza del sindacato confederale, è un modello che ha saputo sfidare gli anni e che rimane attuale, malgrado le tensioni che si sono registrate lungo tutto il cinquantennio di vigenza della legge. 

Non tutto va bene, ovviamente, e il punto che mi lascia maggiormente perplesso è il ruolo del sindacato in azienda. 

Per spiegarmi prendo a spunto le parole di Gino Giugni là dove afferma che lo Statuto si “bagna nella contrattazione collettiva”, come a dire che lo Statuto presuppone la presenza attiva del movimento sindacale nelle imprese più grandi, e parimenti la disponibilità dell’imprenditoria a dialogare con il sindacato. Le norme del 1970, per questo motivo, non hanno bisogno di vedere esplicitate per legge le ragioni della presenza delle RSA in azienda. 

Questo è un aspetto che richiede una modifica, perché l’evoluzione sociale ha oramai mostrato i limiti che derivano dalla mancanza di una norma che, espressamente e chiaramente, individui il ruolo del sindacato in azienda. 

Aggiungo però che, se si guardasse bene, non sarebbe difficile trovare una indicazione normativa sul ruolo della RSA in azienda: solo che si tratta di una delle norme meno studiate e meno conosciute di tutto il sistema italiano. Mi riferisco al d. lgs. n. 25 del 6 febbraio 2007, che traspone la direttiva europea n. 2002/14 in materia di informazione e consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali. 

Questo decreto contiene una norma che impone al datore di lavoro, su richiesta dei rappresentanti dei lavoratori, di incontrarli periodicamente e di tenerli aggiornati sulle future evoluzioni dei livelli occupazionali. Non è uno scherzo, ma una norma di derivazione franco-tedesca, che non abbiamo voluto o saputo trasporre correttamente, ma che, se trovasse un’applicazione corretta, potrebbe consentire di scoprire, non all’ultimo minuto quando ormai la crisi è insanabile, ma con un certo anticipo, che le perdite di gestione iniziano a mettere in crisi una organizzazione produttiva. 

Si tratta di un problema che non interessa solamente i lavoratori, ma tutto il sistema economico, come dimostra il fatto che, nell’ambito della riforma della legge fallimentare, si è registrata una modifica che è passata completamente inosservata che riguarda direttamente il Codice Civile, là dove all’art. 2086, disciplina i poteri del datore dell’imprenditore. Si trattava di una norma completamente negletta. Ora il legislatore l’ha modificata, prevedendo un obbligo del datore di lavoro di vigilare, per evitare di portare l’impresa ad una situazione tale di insolvenza, da imporre come passo immediatamente successivo la sua liquidazione e chiusura. 

È una norma in certo modo rivoluzionaria, perché afferma che l’imprenditore non può trattare l’impresa, come se fosse il proprietario di una cosa, che può essere liberamente distrutta. Al contrario, ora si ha il riconoscimento normativo che l’impresa ha un valore sociale e che di conseguenza il suo titolare si deve preoccupare per le sorti del complesso produttivo, essendo obbligato a suonare un campanello di allarme quando la gestione comincia ad andare in perdita. 

A fronteggiare quest’obbligo sta dunque quell’altra norma prima richiamata, che dà alle rappresentanze dei lavoratori il diritto ad essere informate e a poter interloquire con la direzione aziendale. Certo questo diritto ad essere informati e consultati è un diritto particolare, che richiede, innanzitutto, la capacità di mantenere riservate le informazioni condivise: se il datore di lavoro mi racconta quali sono le sue strategie aziendali, non è che io le posso rendere pubbliche! Forse non le posso neanche raccontare al sindacato territoriale, perché quest’ultimo potrebbe rischiare di comunicarle ad altri soggetti che operano nel mio stesso settore e che così avrebbero un vantaggio competitivo indebito. Ed è certamente una norma che richiede una grande competenza anche da un punto di vista tecnico, per sapere dialogare di bilanci, di strategie commerciali e di piani industriali. 

Ho l’impressione, quindi, che si debba operare, già sul piano della prassi quotidiana, per rafforzare il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori in azienda, nella direzione di fare la scelta, certamente non facile per la tradizione sindacale italiana, di prendere una parte più attiva ed interessata alle sorti dell’azienda, richiedendo in tutte le imprese di maggiori dimensioni la corretta applicazione della disciplina in tema di informazione e consultazione.

* docente di Diritto del lavoro, facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica, campus di Milano