La violenza di genere è un fenomeno ancora in gran parte sommerso che fatica ad emergere. Il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne e il dipartimento e la facoltà di Psicologia dell’Ateneo l’hanno celebrata con l’evento “Il mondo rosa e il mondo azzurro: dagli stereotipi alla violenza di genere” che rientra in un progetto sostenuto dalla Regione Lombardia.

Ne abbiamo parlato con Luca Milani, docente di Psicologia della violenza di genere dell’ateneo innanzi tutto partendo da qualche dato per capire se il fenomeno è in aumento o in diminuzione. 

«È complesso reperire dati aggiornati perché si tratta di un fenomeno ampiamente sommerso. A partire dal noto rapporto OMS del 2013, i dati fanno pensare che in tutto il mondo una donna su tre sia stata, in qualche momento della propria vita, vittima di violenza. 
I dati sono in parte contrastanti: dal report della Polizia di Stato del 2019, si riscontra come dal 2016 al 2019 la quota di vittime di sesso femminile di reati di aggressione sia cresciuta dal 68% al 71%. Il numero assoluto di tali reati appare tuttavia in diminuzione, nello stesso arco temporale, compresi i maltrattamenti in famiglia e le violenze sessuali. Di particolare interesse è il fatto che l’incidenza della violenza denunciata dalle vittime appare omogenea in tutte le Regioni italiane, tra tutte le classi sociali e culturali e tra tutti i ceti economici.
I dati Istat, relativi a una indagine sui centri antiviolenza del nostro Paese, mostrano la vastità dei numeri anche se riferiti ai soli casi “emersi”: nel 2017 ben 43.467 donne hanno chiesto aiuto ai centri, delle quali il 67,2% ha iniziato un percorso di uscita dalla violenza».

Dove si consumano prevalentemente questi reati?
«Molti di questi reati si verificano entro le mura domestiche. A titolo d’esempio, secondo i dati della Polizia di Stato gli autori dei reati persecutori indicati dalle vittime sono sconosciuti solo nel 9% dei casi complessivi, a fronte di un 61% di ex partner, 11% di partner non conviventi, 15% di conoscenti o amici, 4% di familiari o parenti (dati Polizia di Stato). Nell’estremo del femminicidio, l’autore nell’81% dei casi è un familiare».

Le donne denunciano di più rispetto al passato? E come si comportano quando la violenza domestica avviene in presenza dei figli minori?
«I dati Istat evidenziano dal 2006 al 2014 un aumento delle denunce da parte delle donne (l’11,8% contro il 6,7%), nel contesto di una maggiore emersione del fenomeno (le donne che non ne parlano con nessuno passano dal 32% al 22,9%). Cresce l’accesso ai centri antiviolenza, parallelamente con una maggior consapevolezza circa la gravità del reato.
Nel caso di violenza assistita, ovvero l’aggressione fisica e/o psicologica in presenza dei figli che fanno esperienza diretta del maltrattamento della madre, solitamente la donna richiede aiuto per proteggere i figli. Ricordiamo che la violenza psicologica, che a differenza della violenza fisica non è episodica ma quotidiana, è altrettanto tesa a svilire, annichilire e coartare l’altra persona».

Quali provvedimenti giuridici recenti supportano le donne vittime di violenza?
«La legge n. 69/2019, nota come “Codice rosso”, ha consentito di inasprire la repressione tramite interventi sul Codice penale, velocizzando i procedimenti e l’adozione di strumenti di protezione per le vittime. Inoltre essa ha introdotto nuovi reati che estendono il dominio di violenza domestica a comportamenti come la diffusione illecita di immagini o video di revenge porn, la deformazione dell’aspetto della persona per lesioni al volto, la costrizione al matrimonio e la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare.
Ci sono poi esperienze volte a intercettare in anticipo le condotte a rischio di violenza di genere e domestica. Un esempio è il “Protocollo Zeus”, un’intesa tra Questura di Milano e il Centro Italiano per la Promozione e la Mediazione (CIPM), che prevede che i soggetti ammoniti dal Questore svolgano un percorso di riflessione con gli operatori del CIPM, una pratica che ha ridotto del 26% gli atti persecutori e del 19% i maltrattamenti in famiglia».

Come si differenziano gli interventi in caso di violenza assistita?
«In questo caso è necessario che gli interventi siano multidisciplinari e rivolti a madri e bambini insieme, così da proteggere e sostenere il reciproco legame e consentire un superamento del trauma della violenza. I dati di ricerca che abbiamo raccolto come Centro di ricerca CRidee evidenziano, infatti, come l’aggressione impatti in modo significativo le capacità delle mamme che entrano in un programma di protezione di prendersi cura dei figli, soprattutto a causa del rischio di sviluppo di sintomatologia post-traumatica e depressiva. Per questo è opportuno che la presa in carico della diade madre/figlio contempli la possibilità di rinforzare le skills genitoriali così da prevenire lo sviluppo di una relazione disfunzionale».

Durante il primo lockdown sembra che siano aumentati i casi di violenza in famiglia. I dati lo confermano? «Secondo la rete dei centri antiviolenza D.i.Re. nel periodo del lockdown c’è stato un decremento delle richieste di donne non note precedentemente (pari al 30% del totale, mentre nell’analogo periodo degli anni precedenti rappresentavano il 78%), a testimoniare come la situazione di distanziamento di fatto riducesse le possibilità di chiedere aiuto. Parallelamente i dati evidenziano anche come il numero di richieste sia invece aumentato: rispetto al trend abituale, nel periodo di lockdown il numero di contatti è aumentato di oltre 1.300 donne. Relativamente al numero 1522, il numero di richieste di aiuto è raddoppiato se parametrato allo stesso periodo del 2019 (+119%)».

Che peso hanno i media nella diffusione o nel contenimento del fenomeno?
«I media hanno una grande responsabilità nell’evitare di sostenere luoghi comuni e semplificazioni riportando i fatti di cronaca. Appellare lo stalker come “impazzito per la gelosia” o “il gigante buono” divenuto violento per “un amore non corrisposto” è un modo indiretto per giustificare gli atti persecutori. 
Nel nostro Paese le opinioni diffuse sui rapporti tra generi risultano ancora per diversi aspetti preoccupanti. Una ricerca, diffusa da Istat proprio il 25 novembre di un anno fa, riporta come tuttora in Italia per il 32% degli intervistati «per l'uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro», per il 31,5% «gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche» e per il 27,9% «è l'uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia». Quasi un cittadino su quattro (uomini ma anche donne) pensa ancora che la causa della violenza sessuale sulle donne sia addebitabile al loro modo di vestire; il 39,3% della popolazione italiana è convinta che per una donna sia possibile sottrarsi ad un rapporto sessuale, se davvero non lo vuole; il 15% pensa che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l'effetto di droghe sia almeno in parte responsabile».

Qual è il contributo delle università?
«Le università hanno il compito imprescindibile di promuovere un cambiamento a livello di sistema perseguendo i tre compiti istituzionali della ricerca (attivando studi che consentano di comprendere ancora meglio il fenomeno dal punto di vista sociale, sanitario, giuridico, psicologico, economico), dell’insegnamento (attivando insegnamenti specifici sul tema così da formare professioniste e professionisti in grado di contrastare il fenomeno a tutti i livelli) e della terza missione (promuovendo attività di public engagement, qualificandosi come polo di innovazione e di trasmissione di buone pratiche). Oltre a questo, è opportuno che le Università si qualifichino come elementi trainanti anche dal punto di vista della regolazione interna dei rapporti tra i generi dal punto di vista del clima di lavoro, del rispetto delle pari opportunità, dell’accesso a una cultura del lavoro nella quale il gender gap venga superato».

L’Università Cattolica come si è attivata?
«Il nostro ateneo è molto attivo. Come dipartimento e facoltà di Psicologia abbiamo preso parte al Bando di Regione Lombardia specificamente indirizzato alla prevenzione della violenza di genere, attivando sin dal 2018 uno specifico insegnamento di “Psicologia della violenza di genere” all’interno della laurea magistrale in “Psicologia dello sviluppo e dei processi di tutela” e promuovendo diverse iniziative culturali e scientifiche sul tema. 
Il CRidee ha recentemente vinto un bando europeo che mira ad estendere il “Protocollo Zeus” in altre realtà del Paese. Inoltre, dal punto di vista della prevenzione del fenomeno il Cridee ha attivato da qualche anno dei progetti di ricerca specifici sul tema, con l’obiettivo di analizzare l’impatto della violenza sulle capacità genitoriali delle madri vittime, evidenziando come l’effetto traumatico della violenza non si limiti al rischio di insorgenza psicopatologica nelle vittime ma vada a riflettersi sulle stesse pratiche di parenting rivolte ai figli».

Infine segnaliamo che l’Università Cattolica aderisce al progetto Un.I.Re. (UNiversità In REte contro la violenza di genere), il cui obiettivo è stabilire un network di atenei italiani che possa favorire l'attuazione della “Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne e la violenza domestica” sui tre compiti istituzionali citati prima. L’adesione a questo progetto è stata fortemente sostenuta e stimolata dal Comitato Pari Opportunità del nostro ateneo.