Nel 2019 la rivista “Forbes Italia” l’ha inserita tra le 100 donne italiane di successo dell’anno. Un curriculum brillante quello di Manuela Ronchi, laureatasi agli inizi degli anni Novanta in Lingue e letterature straniere all’Università Cattolica di Milano con tesi in letteratura inglese sotto la guida del professor Geoffrey Hutchings.

Subito dopo la laurea avvia la divisione Eventi e Produzioni nell’agenzia di Gerry Scotti, dove si occupa del management di volti noti dello schermo televisivo. Nel 1995 fonda l’Action Agency, società specializzata nella produzione eventi e nella gestione di personaggi sportivi e cantanti. In quegli anni l’Agenzia cura le relazioni pubbliche e i diritti di immagine di personaggi come Max Biaggi, Marco Pantani, Alberto Tomba, Linus, Marco Tardelli.

Con il crescere dell’agenzia aumentano anche i settori di azione comprendendo quelli del cinema e dell’imprenditoria. È tra le prime in Italia a lanciare il trend del podcasting e degli eventi digitali. All’inizio del 2020, in seguito all’emergenza Covid-19, reinventa i compiti dell’agenzia adattandoli alla imprevista situazione venutasi a creare e così dà vita insieme al suo team a “Eventi in Azione”: il primo network 100% made in Italy che ha l’obiettivo di riattivare la filiera degli eventi in Italia, proponendo un modo completamente nuovo per organizzarli e creando una piattaforma per eventi digitali in grado di sostituire e affiancare il mondo analogico.

Cosa ha dato l’Università Cattolica a Manuela Ronchi per immettersi con tanta determinazione nel mondo del lavoro in un settore così complesso? «La Cattolica mi ha insegnato soprattutto un metodo di studio. Al liceo avevo la passione per le lingue e volevo diventare professoressa d’inglese, poi ho capito che lavorare in mezzo alla gente, tra le persone, era il mio destino e che costruire valore grazie alla relazione poteva essere il mio futuro.
Da studentessa ho iniziato esperienze lavorative per praticare subito l’uso delle lingue. Sono stata una delle prime cinque studentesse della Cattolica ad aver scelto la lingua russa. Le mie compagne avevano deciso di studiarla perché erano affascinate dalla cultura e dalla letteratura russa, io invece l’ho scelta soprattutto perché secondo me la Russia poteva avere uno sviluppo economico interessante e poteva tornarmi utile conoscere questa lingua. Del russo mi piaceva la musicalità ma anche il fatto che non lo studiava nessuno: mi intrigava impararlo e per me era una bella sfida. Questo mi ha consentito di iniziare a viaggiare e i viaggi favoriscono gli incontri: porti valori agli altri e ricevi i loro. È lì che ho creato la mia professione, trovando il coraggio di trarre da ogni incontro il meglio, di creare contenuto e condividerlo senza creare élite».

A proposito di relazioni, che rapporto c’è oggi tra umanesimo digitale e relazioni? «Questa fase storica punta proprio al recupero della centralità dell’essere umano rispetto alle macchine e alla tecnologia, per dare il via a una rinascita delle relazioni e della cultura. Il digitale è entrato nella nostra vita da anni, ma il nostro impegno è nel riempirlo di contenuto. Se smettiamo di pensare è finita. Siamo noi che diamo gli input per gli algoritmi. Nel mio lavoro dedico tanto tempo a parlare col cliente per trovare le soluzioni, è importante il tempo dedicato alle relazioni interpersonali. Quello che pubblichiamo sui social è quello che vogliamo fare vedere, non sono relazioni ma connessioni. L’incontro reale, con il linguaggio paraverbale che ne scaturisce, aiuta a intendersi meglio.
Occorre imparare a raccontarsi sin da piccoli. Oggi non condivido le verifiche operate a scuola tramite test, crocette, vero-falso, il tablet abitua a guardare velocemente, ad esprimersi con monosillabi, senza sapersi raccontare nelle videoconferenze. Non sono nemica dei social, ma li uso in modo consapevole. Occorre un giusto equilibrio tra analogico e digitale. Nella mia azienda ho detto io agli “smanettoni” come doveva essere la piattaforma, in base alle necessità di una azienda di comunicazione che sviluppa dinamiche destinate alle relazioni dal vivo. Perché sono dell’idea che la voce è lo strumento che converte di più. Il podcast oggi è molto importante».

La tecnologia odierna rappresenta una libertà o una schiavitù? «A me dà senso di libertà. So quando collegarmi, anche in vacanza, se devo risolvere un problema ma so anche quando è ora di spegnerlo, sapendo di essere raggiungibile. La libertà la ottieni se non diventi schiavo».

Quanto è importante l’organizzazione nel suo lavoro? «Già in Università avevo adottato un metodo di studio rapido che utilizzava schemi, colori, sottolineature. È importante, come metodo di lavoro, fermarsi ad analizzare, e poi definire il programma. Se sbaglio l’analisi butto via tutto il lavoro. Nella mia azienda ho applicato questo concetto. Io sono l’imprenditore che rischia e i miei collaboratori sono a turno capi-progetto in base alle skill per quel progetto e per quel cliente. Così uno impara a gestire un progetto come un imprenditore. E i ruoli si alternano: chi è capo-progetto di un programma, diventa collaboratore del capo-progetto di un altro programma. Se non hai un metodo ti demotivi e non vedi il punto di debolezza».

Lei ha raccontato che con Marco Pantani bastò guardarvi negli occhi per stabilire un rapporto di fiducia. «I contratti non li ho neppure firmati, è la fiducia che governa le relazioni. Marco mi disse: “Se devo lavorare con una persona, devo capire prima di tutto se ci sono feeling ed empatia: non sono le slide che contano”».

Nelle scorse settimane ha pubblicato per i tipi di Gribaudo il libro Le relazioni non sono pericolose. L’importanza dell’incontro all’epoca dei social. Come si declinano le pubbliche relazioni nell’era dei social? «In questo libro ci sono ricordi, aneddoti, consigli, strategie, a metà strada fra il racconto di una carriera e un manuale pensato per chi vuole “fare pubbliche relazioni”, lavorare nel mondo della comunicazione o semplicemente capirlo meglio.
In un’epoca di rivoluzioni digitali e social media si potrebbe pensare che anche il “mestiere” delle pubbliche relazioni si realizzi interamente, o quasi, davanti a uno schermo. Invece è l’esatto opposto, cioè che quello che conta, oggi come ieri, è il contatto umano, lo sguardo, la chiarezza di intenti.
Le mail, i messaggi e i social network sono importanti, sia chiaro, ma non credo che possano mai sostituire il potere della vera relazione. Oggi posso affermare forte e chiaro che è il network la mia vera forza, ovvero le relazioni personali, la capacità di crearle, di svilupparle e di renderle durature. Un giorno, durante una riunione, Gerry Scotti mi disse una frase che ha letteralmente condizionato tutta la mia vita lavorativa: «Ricordati che anche se parli davanti a tre o quattro persone devi pensare sempre di essere in prima serata su Canale 5». Ovvero: impara a comunicare con le persone».

Nel libro trova anche spazio il capitolo su come comunicare dopo il Coronavirus. «Questa emergenza sanitaria ci ha davvero svelato quanto sia importante saper comunicare, quanto siano importanti i contenuti, quelli veri e non quelli costruiti su orpelli che di contenuto hanno ben poco, e quanto la relazione sia effettivamente al centro di tutti i rapporti. Le aziende e i consumatori, dopo l’esperienza della quarantena legata al Coronavirus, non si chiederanno più “cosa” ma piuttosto “come”: come affrontare la vacanza e non più cosa fare durante la vacanza. Ma anche come selezionare gli amici, come affrontare un incontro di lavoro e così via. Selezioneremo le persone con cui vorremo davvero stare e con le quali uscire a cena o chi far venire a casa nostra. Il fatto di guardarci negli occhi e di mettere al centro la relazione non significa aggregazione di massa (“esisto se vado a tutte le feste”, “esisto se sono in certi luoghi perché se non ci sono vuol dire che non conto niente”). Con il Coronavirus è cambiato tutto, ma la relazione è diventata e diventerà ancora più importante. Il periodo di quarantena ci ha fatto capire che il digitale ci permette di restare connessi, ma tra lo stare connessi e comunicare c’è una grande differenza.
Negli ultimi anni le pubbliche relazioni venivano considerate nel senso di frequentazione di certi ambienti o di fare foto da postare sui social. Ma è lo scambio di esperienze che genera valore, non occorre essere onnipresenti per esistere. Sono convinta di una cosa: se dedicassimo più tempo alle relazioni, agli incontri, ad ascoltare con i sensi potremmo creare delle relazioni più durature e più vere».