«La parola scritta e quella detta sono due cose vive e importanti. La prima nasce e muore nel momento stesso in cui viene pronunciata mentre l’altra vive a più a lungo ma rischia scomparire anch’essa se non trova nessuno in grado di leggerla e farla sua». Fin dall’antichità il tema della narrazione si è scontrato sul dualismo tra scrittura e tradizione orale. Una questione che Mimmo Cuticchio, dall’alto della sua decennale esperienza come cuntista e puparo siciliano, conosce molto bene. E proprio Le vie della narrazione sono state il tema con cui l’artista siciliano si è confrontato insieme al regista Gabriele Vacis e al docente di Lingua e letteratura araba Paolo Branca in una tavola rotonda svoltasi lunedì 11 aprile alla Cattolica di Milano e moderata da Paolo Bernardi, docente di Storia e antropologia del teatro.
«La memoria – ha ricordato Branca – è un aspetto ancora molto curato nelle scuole arabe. Lì, il mandare a mente le opere più importanti della letteratura è un esercizio ancora in voga e questo perché la storia e la letteratura hanno un rapporto molto stretto con la tradizione orale. Basti pensare al Corano, un testo scritto per essere recitato e ascoltato, non per essere letto sulle pagine di un libro».
Tuttavia, come ha sottolineato Gabriele Vacis nel suo intervento, non ha molto senso parlare di dominio di una parte rispetto all’altra: «Quando abbiamo cominciato a raccontare storie – ha spiegato – lo abbiamo fatto quando i cosiddetti intellettuali dicevano che la narrazione era morta. Il teatro muore, il romanzo scompare, la storia finisce… Tutte stupidaggini. Purtroppo sempre più diffuse. Eppure se guardiamo i grandi successi televisivi di quest’anno scopriamo che a farli sono stati i grandi affabulatori. La globalizzazione non ha ucciso la specificità».
E a dimostrarlo è la presenza di Mimmo Cuticchio, custode di una tradizione, quella dei pupi, che nella sua famiglia si tramanda di padre in figlio. Ed è lo stesso puparo a raccontarla: «Quando ho cominciato era diverso, esisteva un vero e proprio pubblico appassionato del genere. Io, essendo il figlio dell’oprante, sono stato avvantaggiato e fin da piccolo mi sono cimentato in quest’arte dando una mano a mio padre. Il mio compito era quello di calare la scena. A volte però capitava che per fare colpo la mollassi di colpo. Mio padre si arrabbiava tantissimo, quanti scappellotti in testa mi sono preso. Aveva ragione, ma l’ho capito solo col passare degli anni. La scena va accompagnata, non abbassata di schianto perché così facendo rischia di rompersi».
Cuticchio ha poi voluto ricordare i grandi maestri della tradizione orale siciliana, poeti e cantastorie come Ciccio Busacca, Ignazio Buttitta e Orazio Strano. «Tra questi artisti – ha spiegato - c’era un particolare tipo di collaborazione, il loro era un ‘incontro’, un doppiaggio reciproco. Il mio maestro invece si chiamava Peppino Celano. Da lui ho imparato tanto anche se, a dire il vero, lui non rispondeva mai alle mie domande. Ogni cosa ha il suo tempo, anche l’apprendimento. Le tecniche ci sono ma le conosce solo chi vive di quel lavoro».
Un lavoro che però ha senso solo se c’è un pubblico disposto ad ascoltarti e un teatro in cui esibirsi. E quando la platea è composta di bambini e il palcoscenico è la strada tutto diventa più complicato: «Peppino Celano si esibiva nel quartiere palermitano del Capo, quello era lo spazio del mio maestro. Quando ho cominciato io, intorno agli anni ’80, era tutto cambiato. Non si poteva più stare in strada perché arrivava il vigile urbano e ti chiedeva licenze, diritti d’autore, fogli e fogliacci. E anche il pubblico non era più lo stesso. Così ho dovuto andare alla ricerca di nuovi spettatori. E sono andato nelle scuole. L’impatto è stato tanto forte quanto inaspettato. Più raccontavo scene drammatiche, più i miei piccoli spettatori si sbellicavano dalle risate. Ero disorientato. A quel punto mi sono detto: ‘Volete ridere? Va bene, vi faccio ridere, però decido io quando’. E così ho cominciato a mettere in scena uno spettacolo dove Orlando diventa quasi un specie di Cavaliere Inesistente di calviniana memoria e dove la prima parte di spettacolo è decisamente comica. Alla fine, però, racconto qual è la vera fine del povero Orlando. Un canovaccio con cui finalmente sono riuscito a far commuovere i bambini che però anche in questa versione sono riusciti a sorprendermi: le lacrime infatti scendevano non tanto per l’eroe ma per il suo cavallo».
La tavola rotonda non si è limitata a una discussione sul futuro della narrazione ma è stata anche occasione per ascoltare qualche passo dell’arte oratoria di Cuticchio. Voce tonante, calibrata e tremolante per poter essere udita dalla prima fila fino all’ultimo angolo della sala Cuticchio ha deliziato i presenti decantando qualche stralcio, ovviamente in siciliano, delle gesta di Orlando, Angelica e Carlo Magno trasformando per pochi secondi l’aula cripta nell’Opera dei Pupi.
La chiusura è una riflessione dal sapore agrodolce. «In Sicilia il tempo dura più a lungo rispetto agli altri luoghi. Nel bene e nel male. Questo ha mantenuto in vita, purtroppo, sistemi economici di tipo feudale ma ha permesso anche a tradizioni culturali antichissime di conservarsi fino ai giorni nostri».